Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale

RON SEXSMITH - "Long Player Late Bloomer"

05:11
Il canadese Ron Sexsmith e' uno di quegli artisti che, nonostante una naturale inclinazione a scrivere splendide melodie che lo hanno portato ad annoverare tra i suoi ammiratori gente del calibro di Paul McCartney ed Elvis Costello, non ha mai trovato la chiave per raggiungere il "successo" di vendite che meriterebbe. Raggiunti i vent'anni di carriera (almeno dalla pubblicazione del primo album) non credo che questo sia piu' nei suoi obiettivi. Quello che poteva succedere con "Cobblestone Runway" nel 2002 non e' successo ma a giudicare da "Long Player Late Bloomer" non sembra essere un problema. Sin dalle prime note di "Get in Line", si capisce che siamo di fronte ad un album costruito per entrare nella testa immediatamente. E' una melodia che si canta e si ricorda dopo il primo ascolto, cosi' come le successive "The Reason Why" e  "Believe It When I See It". Lo sforzo di "Long Player Late Bloomer" di apparire semplice risiede pienamente nella produzione brillante dei brani, che non e' mai sopra le righe ma che veste le canzoni perfettamente rivelandone la complessita' nei seguenti ascolti. Ogni volta che lo si ascolta, infatti, l'attenzione si sposta di brano in brano ed ogni volta si ha una canzone preferita diversa. Anche se non ci sono brani riempitivi, certamente ci sono pezzi che brillano piu' di altri. I quattro pezzi finali, (le beatlesiane "Every Time I Follow" e "Love Shine" , le tinte gospel di "Eye Candy", e la ballata conclusiva "Nowadays") chiudono il disco in maniera ancora piu' incisiva di quelle di apertura, confezionando un album di pop sopraffino come e' difficile ascoltare di frequente. Probabilmente Ron Sexsmith non godra' mai del successo dei suoi famosi ammiratori (vedi sopra), ma certamente, almeno in parte, spero che essere menzionato in un blog italiano gli porti almeno un po piu' di notorieta' perche' decisamente se la merita tutta.
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CUT COPY - "Zonoscope"

16:18
La band australiana dei Cut Copy usa la musica elettronica con lo stesso principio con sui viene usata da LCD Soundsystem. L'approccio cioe' e' quello  di una rock band. Dopo il brillante "In Ghost Colours" del 2008, il nuovo album mantiene alto il livello della band consegnandoci un disco buono da ballare e da ascoltare (e se volete, potete anche farlo contemporaneamente!). Anche se la formula non si distacca notevolmente dal lavoro precedente, "Zonoscope" e' decisamente un album piu' "leggero" anche se ancora una volta, abbastanza vario da far venire in mente rispettivamente i Talking Heads, i New Order, I Depeche Mode e a volte Frankie Goes to Hollywood. Il disco sembra essere concepito come un vecchio LP in due parti distinte divise da "Strange Nostalgia for the Future", il brano piu' corto dell'album che funge da cerniera tra la parte piu' dance e quella piu' rock. Forse questa divisione e' casuale ma decisamente sembra che ascoltando il disco si parte da un punto e si arriva da tutta un altra parte. Se si ascolta "Need You Now" e  "This Is All We Got", (quelle che cioe' potrebbero essere le canzoni d'apertura delle due facciate), si puo' apprezzare la versatilita' dei Cut Copy e lo spettro sonoro entro il quale si muovono che copre l'intero arco dalla pop/dance alla New Wave. Ora che sembra che LCD Soundsystem abbia intenzione di ritirarsi della musica, i Cut Copy rimangono la punta di diamante del genere, anche se difficilmente potranno spingersi oltre.
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BROWN RECLUSE - "Evening Tapestry"

17:52
L'esordio della band di Philadelphia, dopo un promettente ep uscito ben due anni fa,  mette in evidenza come molte giovani band puntano dritto al recupero delle sonorita' degl anni '60 ed a coloro che le hanno mantenute in vita  nei decenni successivi. "Evening Tapestry" e' un piccolo gioiello di pop psichedelico che si avvicina, per sfumature, melodie ed arrangiamenti, non ai soliti mostri sacri quali i Beatles o i Beach Boys, bensi a bands meno osannate quali gli Zombies o The Left Banke. I due anni trascorsi a costruire l'album d'esordio evidentemente sono serviti ai Brown Recluse a lavorare agli arrangiamenti che sono la vera forza di queste canzoni assolutamente semplci. La brevita' dell'album (appena poco oltre i 30 minuti con 11 canzoni), ne fa un altro elemento di forza in quanto invita al riascolto varie volte  gustandone di volta in volta le piacevoli invenzioni sonore. Dall'apertura di "Hobble to your Tomb", fino alla conclusiva "March to your Tomb" si fa un piccolo viaggio in un mondo sonoro solare, antico e moderno in una tessitura fatta di tastiere, chitarre acustiche e soprattutte melodie che rivaleggiano con le loro influenze . Mentre a volte si fa fatica a non pensare a Belle & Sebastian o al collettivo della scuderia Elephant 6 (Apples in Stereo, Of Montreal pre elettronica o Ladybug Transistor), chiunque ami il Pop non puo' farsi sfuggire questo esordio e farebbe bene a tenere d'occhio i Brown Recluse.
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YUCK - "Yuck"

09:20
Quando una giovane band esordisce, e' difficile non fare paragoni e cercare le influenze che ne caratterizzano le sonorita'. A volte risulta complicato, o perlomeno soggettivo, ma nel caso degli Yuck, la giovane band inglese, risulta piuttosto semplice, anche perche' gli stessi protagonisti ne parlano. Gli Yuck aggiornano il canone rock della fine degli anni '80 e anni '90, prendendo la lezione dei Dinosaur JR, My Bloody Valentine, Pavement e un pizzico di Pixies per aggiornarla e portarla di nuovo in voga in questa seconda decade del nuovo millennio. Il fatto che l'album sia cosi' palesemente derivativo, non ne diminuisce affatto il valore, perche' si tratta di omaggio nato esclusivamente dall'ammirazione di questi gruppi, non una semplice copia. Gli Yuck, costruiscono un album che e' estremamente bilanciato da momenti rock ("Get Away", "The Wall", "Holing Out", "Operation") a ballate piu' o meno acustiche ("Shook Down", "Suicide Policeman", "Suck"),  dimostrando come abbiamo imparato la lezione interamente.  Le canzoni che compongono "Yuck" sono estrememente piacevoli, melodicamente accattivanti e piene di una energia giovanile che ne costituisce sicuramente una base solida sul quale costruire un brillante futuro. Quando sono di nuovo le chitarre elettriche a parlare, c'e' sempre la speranza che non tutto e' perduto.
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BRIGHT EYES - "The People's Key"

08:27
A quanto pare, "The People's Key" sara' l'ultimo album dei Bright Eyes. Anche se nella storia del rock abbiamo sentito frasi di questo genere essere pronunciate e poi smentite dai fatti, c'e' sempre la possibilita' che sia del tutto vero. Il dubbio resta pero' in quanto dal precedente album "Cassadaga"del 2007, Conor Oberst ha pubblicato un album  a proprio nome ("Conor Oberst" 2008) ed un altro ("Outer South" 2009) denominato Conor Oberst and The Mystic Valley Band. Il percorso di allontanamento dalla creatura che lo ha visto arrivare sulle scene giovanissimo (18 anni quando il primo album e' uscito nel 1998) era quindi gia' cominciato ma evidentemente c'era qualcosa di irrisolto. Se "The People's Key" sara' l'ultimo album a nome Bright Eyes, l'addio e' ottimo. Quello che appare evidente dall'ascolto del disco e' la sua natura celebratoria, in quanto contiene tutti gli elementi che hanno fin qui caratterizzato la musica prodotta dal gruppo. Dall'introduzione parlata, al folk rock, all'impiego di abbellimenti elettronici, "The People's Key"e' un album che vede Oberst approfondire la sua ricerca personale  della propria condizione di essere umano, senza trovare risposte definitive. E' un album in cui la spiritualita' gioca un ruolo fondamentale, dove le varie esperienze si mescolano in una sorta di umanesimo che prende spunto da tutto senza trasformarsi mai in una verita' assoluta. Se in "Shell Games" Oberst canta "La mia vita privata e' un insito scherzo che nessuno mi ha spiegato", e "Sono ancora arrabbiato senza piu' un motivo per esserlo", e' in "Triple Spiral" che si trova la risposta nel verso "Questo e' il problema/ un cielo vuoto/  ed io lo riempio con tutto quello che manca alla mia vita." Questa e' la risposta piu' vicina alla verita', un risposta cioe' che contiene una marea di dubbi ma che sposta il divino nell'uomo. Insomma, "The People's Key" e' la fine e l'inizio, una risposta ed una domanda, gioia e tristezza, un epilogo ed un prologo di un artista cresciuto in pubblico che cerca di trovare un posto per se' mentre scopre di appartenere agli altri.
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P. J. HARVEY - "Let England Shake"

22:22
Sono passati quasi venti anni da quando il mondo musicale ha conosciuto l'urlo primordiale dello spirito libero di Polly Jean Harvey ed in questi venti anni non c'e' mai stata una caduta di stile, bensi' ottimi albums ed almeno un paio di capolavori. Ora PJ Harvey ritorna con un disco ancora una volta diverso, soprattutto dall'estremamemte intimo ed a volte impenetrabile "White Chalk". Ma "Let England Shake" e' un disco diverso da tutta la sua discografia per una ragione molto semplice: Harvey qui esplora un soggetto altro da se stesso e facendo cio', si espone ancora di piu' rivelando una natura "politica' che fino ad ora aveva evitato. "Let England Shake" e' un disco che parla di guerra, di soldati che diventano carni da macello, di paesaggi desolati, di una incombente sensazione di morte, insomma di uno stato delle cose non proprio allegro. PJ Harvey diventa la narratrice di una quotidianita' straordinaria, usando la sua musica e le sue liriche per raccontare il mondo. Lo fa con il distacco dovuto quando si racconta una storia altrui, ma anche con una compassione ed una comprensione che sono degne della migliore letteratura. Per questo disco, le parole sono venute prima della musica, ma e' difficile capirlo se non lo si apprende. I bozzetti lirici ed il cantato della Harvey scoprono qui nuovi territori, cosi come la musica che si apre a strumenti mai apparsi prima nei suoi lavori (vedi l'uso dei sassofoni). Grazie all' ormai collaboratore essenziale John Parish ed alla coproduzione di Flood, "Let England Shake" si aggiunge ad una ormai lunga lista di dischi importanti che hanno dato al rock un lustro artistico paragonabile a qualsiasi altra arte. "Let England Shake" e' sicuramente un disco "importante", uno di quelli che rimarra' come punto di riferimento nella storia personale di P.J. Harvey e piu' in generale nella storia contemporeanea, aiutandoci se non a comprenderla almeno a tollerarla.
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RADIOHEAD - "The King of Limbs"

15:51
La sorprendente uscita del nuovo album dei Radiohead,  "The King of Limbs", suscita alcune riflessioni su quella che probabilmente e' la migliore band degli ultimi venti anni di rock. Personalmente considero "Ok Computer" il loro capolavoro e, nonostante riconosca il valore dei "Kid A", ho faticato non poco a tenere il passo con i lavori seguenti. Quello che rende "Ok Computer" cosi' affascinante e', a mio avviso, la presenza di canzoni straordinarie che sebbene siano avvolte da una tessitura  sonora moderna, ancora mantengono una struttura riconoscibile con la quale relazionarsi a livello emotivo. Quello che avviene da "Kid A" in poi (sempre secondo me), lascia molto meno spazio all'emozione in favore di una sperimentazione intellettuale che a volte ha i tratti della genialita' ed a volte quella di una noiosa e autocelebratoria masturbazione. Adorati e venerati dalla critica ( tanto che ogni loro album sembra un evento straordinario), I Radiohead hanno creato un eccellente catalogo, originale ed unico, che ha rischiato pero' di atrofizzarli. L'uscita di "In Rainbows" quattro anni fa, ha segnato un ritorno ad una struttura piu' lineare senza rinunciare alla sperimentazione. "In Rainbows" e' un disco che si ascolta con la piacevole sensazione che la bellezza avviene sotto i nostri occhi. Al di la' del calmore suscitato dalla pubblicazione digitale e del "pagate quanto volete", "In Rainbows" si colloca ai vertici della loro carriera, poco al di sotto di "Ok Computer". Detto tutto cio', che cosa dire di "The King of Limbs"? La prima impressione e' che non aggiunge ne toglie assolutamente nulla al valore della band, ma il sospetto e' che i Radiohead abbiamo ormai raggiunto una zona confortevole dal quale si spostano solo leggermente senza rischiare. Non che questo sia necesariamente un aspetto negativo ma semplicemente significa che non c'e' nessun sussulto tra le note di "The King of Limbs", soltanto un buon disco con una sufficiente dose di creativita' che e' insita nella storia della band. Ma e' nella naturale evoluzione di qualsiasi artista degno di nota giocare sul sicuro e "The King of Limbs" e' pienamente nel canone Radiohead, capace di farsi amare dagli adoranti fans e dai critici.
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