Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale

STEVE MASON - "Boys Outside"

06:40
Per chi non avesse familiarità con Steve Mason, ricordo che sul finire degli anni 90 fino alla meta degli anni 00, ha fatto parte dei Beta Band, uno dei gruppi più interessanti della scena Britannica che non hanno però avuto la consistenza e la costanza di imporsi al grande pubblico. Dopo lo scioglimento del gruppo, Mason ha cominciato a proporsi sotto diverse denominazioni, (King Buiscuit Time, Black Affair) per dare corpo a tutte le sue esplorazioni musicali inseguendo generi diversi. Questo nuovo album come Steve Mason rappresenta quindi, sotto diversi punti di vista, un nuovo esordio. L'elettronica è presente ma soltanto nella parte ritmica, mentre le canzoni sono in un puro stile pop, molto dirette e molto "semplici". Per far questo, Mason si è servito della collaborazione alla produzione di Richard X, conosciuto per le sue produzioni dance-pop (Sugarbabe). Quello che ne risulta immediatamente, è un suono brillante ed una performance vocale di Mason di tutto rispetto. Ma c'è anche una sorta di onestà emozionale che si sposa alla perfezione con le atmosfere del disco. La semplicità in realtà è l'unica scelta possibile per comunicare direttamente dall'anima, senza bisogno di ulteriori abbellimenti. Dopo un periodo in cui Mason ha combattuto contro la depressione e contro acluni fallimenti pesonali della propria vita, "Boys Outside" diventa il racconto di una rinascita, o meglio, il racconto dell'oscurità una volta usciti alla luce.  L'ntrospezione con cui Mason ci conduce dentro i meandri della sua anima non sono deprimenti ne tristi, ma hanno la forza della sincerità che li rendono universalmente comprensibili e non un piagnisteo d'autore. "Sono solo un uomo innamorato o solo un ragazzo fuori moda?" si chiede Mason in "Am I just a Man". Tutti e due, Steve, tutti e due.
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VILLAGERS - "Becoming a Jackal"

04:50


I Villagers più che un gruppo vero e proprio, sono il veicolo per le ambizioni musicali dell'irlandese Conor O'Brien. Dopo una breve esperienza con il gruppo prcedente The Immediate (e d'altronde il nome non lasciava presagire una lunga carierra), O'Brien ha pubblicato un ep a nome Villagers intitolato "Hollow Kind" nel 2009 ed è andato in tour come supporto rispettivamente di Neil Young, Tracy Chapman ed infine i Tinderstick. Ora arriva questo affascinante ed intricato album d'esordio "Becoming a Jackal" a mantenere le promesse di uno dei più promettenti ed interessanti musicisti capace di varcare i confini dell'isola d'Irlanda. Il facile paragone con Bright Eyes viene subito alla mente  ma non esaurisce di certo la complessita ed il fascino di questo lavoro. La canzone d'apertura "I Saw The Dead", con la sua area surreale ed un pianoforte che rimarca l'intero pezzo, fa venire alla mente le atmosfere di Peter Gabriel era Genesis stile "The Musical Box". La canzone che dà il titolo all'album si muove su territori più consoni al folkrock e le due canzoni insieme danno un 'idea dell ambiente sonoro entro il quale si muove O'Brien. Quello che veramente rende il tutto particolare sono comunque i testi  che, a detta dello stesso O'Brien, sono una somma di "immagini o sentimenti oscuri insieme a cose mondane di tuti i giorni". Anche quando parla d'amore, infatti, non c'è niente di solare o sentimentale ma piuttosto la consapevolezza che "l'amore è egoista" ("The Meaning of a Ritual). "Becoming a Jackal" è certamente una delle cose migliori uscite in questa prima metà dell'anno, e Conor O'Brien si ritaglia uno spazio importante nel quale si intravedono tutte le qualità per un possibile prossimo capolavoro.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

06:50
THE KINKS
"The Kinks Are the Village Green Preservation Society" (1968)

Se chiedete a Ray Davies, vi dirà senza ombra di dubbio che i Kinks erano il miglior gruppo rock inglese degli anni sessanta, meglio dei Beatles e dei Rolling Stones. Anche se sappiamo che ciò non è vero, lui ha tutto il diritto di crederlo anche perchè gli argomenti che può portare a sostegno della sua tesi sono decisamente notevoli. Quello che è certo è che i Kinks non hanno goduto della stessa popolarità mondiale degli altri gruppi della British Invasion, e questo generalmente è attribuito a due fattori: il primo è che la loro musica non è mai stata fortemente innovativa e sperimentale (tranne il primissimo periodo di "You really Got Me"), quanto piuttosto ispirata alla tradizione delle forme musicali inglesi quali il music hall, rafforzata dal secondo motivo, cioè la proibizione di tornare a suonare negli Stati Uniti per un periodo di quattro anni a partire dal 1965, cosa che gli ha precluso la conquista del più grande mercato discografico e quindi la fama e gloria degli altri gruppi inglesi, molti dei quali decisamente molto meno dotati di loro ( vedi Gerry and the Pacemakers dei quali vi domanderete :"E chi sono?". Appunto!).Qundo i Kinks realizzarono "The Village Green" nel 1968 le vendite a livello mondiale del disco si aggirarono intorno alle 100.000 copie (poco più dei loro parenti si direbbe oggi), e, nonostante le positive recensioni da parte della critica, il disco passò quasi del tutto inosservato. Quello messo in piedi da Ray Davies e compagni era un omaggio all'Inghilterra rurale, fatta di personaggi normalmente appartenenti alle classe operaia o contadina, che conducono un esistenza semplice ma felice, accontentandosi dei loro riti come scattarsi foto "per provare che in realtà stanno vivendo". In realtà quello dei Kinks non è solo nostalgia ma, per fare un paragone eccessivamente alto, una denuncia di rivoluzione antropologica non così lontana dalla visione Pasoliniana della bellezza della civiltà contadina. Nel prendere la parte e nell'esaltare la vita del "Green Village", Ray Davies in realtà racconta la vita della maggioranza delle persone, dei loro sentimenti, della massa avulsa da tutta la presunta "rivoluzione" psichedelica tanto osannata. I vari "Johnny Thunder", la "Wicked Annabella", "Monica" e "Walter" non sono degli sconfitti ma semplicemente degli abitanti dei margini della storia.
Ora, a chi poteva interessare tutto questo in un gruppo rock nel 1968? Forse nemmeno a quelli che hanno comprato il disco all'epoca. Eppure la storia ha reso giustizia sia ai Kinks come forza musicale dell'epoca, sia a Ray Davies come uno dei più grandi parolieri e poeti del rock, sia al disco che, col tempo, è diventato il più conosciuto e venduto di tutta la discografia Kinksiana. Il disco è, ovviamente, anche il punto di arrivo musicale più alto della loro carriera (e quello che vede per l'ultima volta la formazione originale insieme). C'è il rock, il folk, il blues ed il music hall, in una miscela originalissima che si sposa alla perfezione con gli affreschi raccontati da Ray Davies. 15 canzoni che trovano la loro unità stilistica nella traccia d'apertura "The Village Green Preservation Society" (scritta però per ultima) in cui si citano tutte le cose da preservare (prima che vengano distrutte da una presunta modernità cinica ed amorale) che vanno dalle porcellane cinesi, alla marmellata di fragole in tutte le sue varietà, dai piccoli negozi al varietà fino alla verginità.
Insomma, scegliendo di stare dalla parte degli emarginati e proponendosi come conservatori di un mondo in declino, i Kinks hanno creato un gioello che entra a pieno titolo in un eventuale aggiornamento del catalogo delle cose da salvare. God Save The Kinks.

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PRINCE - "20ten"

02:57
Chiunque mi conosce, sa bene che sono un fan di Prince ed è quindi difficile recensire un suo disco con la giusta distanza. La notizia dell'uscita di un suo nuovo album mi ha colto di sorpresa; il fatto che sia distribuito gratis insieme ad alcuni giornali in Inghilterra, Germania, Francia e Belgio un pò meno. Lo aveva già fatto con "Planeth Earth" quindi, evidentemente, la cosa è per lui conveniente.  Nonostante la sua conversione religiosa come Testimone di Geova infatti, Prince ha addomesticato i suoi testi ma non certo il suo conto in banca. Resta il fatto che, comunque la pensiate rispetto alle sue convinzioni (che francamente mettono a dura prova anche i fans più accaniti) l'unica cosa che rimane è la sua musica. "20ten" inaugura la quarta decade della carriera di Prince, ed è il suo 27esimo album (ma la conta può essere diversa se considerate tutte le cose che ha pubblicato sul suo sito ora chiuso). Con una carriera così lunga quindi, tutto ci si può aspettare tranne che una rivoluzione nella sua produzione. Risulta però alquanto ingeneroso paragonare i dischi recenti con quelli del passato. Credo sia più giusto, come metro di giudizio, prendere come riferimento il periodo che va da "Musicology" in poi in quanto è con quel disco che Prince inaugura una nuova stagione . "20Ten" allora risulta facilmente essere il suo lavoro migliore. Tutto funziona perfettamente come in una sorta di deja vu. Tutto già sentito eppure tutto cosi incantevole, come una bolla atemporale, un universo parallelo in cui le cose sono rimaste intatte. La struttura ed il suono dell'album ricorda da vicino i suoi capolavori. Si apre con "Compassion" che ha la stessa funzione di "Let's go Crazy" o "Play in the Sunshine" per svilupparsi attraverso le romantiche ballate di "Future Love Song" e "Walk In the Sand", il funk di "Sticky and Glue", "Beginning Endlessly" e "Lavaux" per chiudersi con "Everybody Loves Me"  in cui però l'amore viene , almeno per una notte, corrisposto quando Prince dice "Tonight I Love Everybody, Everyboy Love me", quasi un arrivederci in allegria alla prossima volta. Ma proprio quando l'album sembra finito, arriva la traccia numero 77, "Laydown", che ci lascia forse capire che il prossimo capitolo non avrà la stessa leggerezza di questo. "Laydown" non solo è la traccia più ardita dell'album in cui Prince riprende la sua chitarra per deliziarci e la storia si fa decisamente più rock, ma trova anche l'ardore di paragonarsi a Yoda (si si, proprio quello di Guerre Stellari) quando esclama "From the Heart of Minnesota/Here Comes the Purple Yoda". Francamente, Prince di tutto aveva bisogno tranne che di affibiarsi un nuovo soprannome, ma dopo aver visto Janelle Monae cantare "Let's Go Crazy" al BET music award che ha insignito Prince con un premio alla sua carriera (Life Achivement Award), allora il paragone, in fondo, non sembra così fuoriluogo.
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ED HARCOURT - "Lustre"

02:34
Ed Harcourt si trova in quella classica  dimensione artistica dove un autore tormentato ed amante dell'autodistruzione e dell'eccesso, trova l'amore, si sposa, fa un figlio e cambia pospettiva. Tutto questo ovviamente viene filtrato attraverso la musica che produce. "Lustre" è quindi quel tipo di disco, quello che racconta la metamorfosi verso la ritrovata via. Lo fa attraverso 11 canzoni che spaziano dalla classica ballata pianistica ("Lachrimosity"), all'omaggio al suo maestro Tom Waits ("Heart of a Wolf"), passando per il pop apparentemente leggero ("Do As I Say Not As I Do") ed alla spectoriana "When The Lost Don't Want To Be Found". Ma una menzione a parte merita "Haywired" non a caso, a detta di Harcourt, la prima canzone ad essere stata registrata di questo lavoro. Qui Harcourt dopo aver fatto un compendio della sua situazione e di come sia riuscito a trovare "un po di felicità in un mondo d'inferno" arriva addirittura quasi a scusarsi di essere felice chiudendo con "It's not easy to be happy and get away with it" ("Non è facile essere felici e farla franca"). In questa frase è racchiuso tutto il succo di "Lustre" e di un artista che ha ritrovato, non sappiamo quanto temporanemente, un posto in cui sentirsi a casa.
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SCISSOR SISTERS - "Night Work"

01:18
Non ero rimasto molto impressionato dalla cover di "Comfortably Numb" dei Pink Floyd, ma certamente avevo se non altro apprezzato il coraggio di "giocare" con quel classico. Però l'album "Scissor Sister" era decisamente una boccata d'aria fresca, rimettendo in primo piano il divertimento, il sesso, la stravaganza negli anni 2000 cosi poco presenti. Il successivo "Ta-Dah" però non aggiungeva granchè, e faceva pensare che quell'esordio fosse in realtà comprensivo di tutto quello che gli Scissor Sisters erano capaci di dire e fare.  Ma se il singolo di quell'album era "I Don't Feel Like Dancing", con "Night Work" si celebra esattamente il contrario, cioè la voglia di ballare dall'inizio alla fine con una celebrazione della notte e di tutto il mondo che le ruota attorno. Il tutto può sembrare superficiale, ma la superfice è sempre il posto migliore per cominciare a scendere in profondità. Così, mentre l'omonima canzone che da il titolo all'album apre le danze con un irresistibile ritmo, nell'album trovano spazio incursioni più elettroniche stile Depeche Mode o Bowie, mandando decisamente in soffitta le ballate pianistiche stile Elton John. In questo senso, l'energia della musica si sposa benissimo  con la loro immagine da moderni freak onnisessuali in cui trova anche spazio nell'ultima traccia ("Invisible Light") una parte recitata nientemeno che da Sir Ian McKellen. Insomma, c'è voluto un po di tempo prima di trovare la via giusta, ma non è fuoriluogo conlcudere che con "Night Work" gli Scissor Sisters sono di nuovo in pista mostrando i muscoli.
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WOLF PARADE - "Expo 86"

10:01
I Wolf Parade sono una di quelle band cha hanno ricevuto talmente tanta attenzione con il loro disco d'esordio ("Apologies to Queen Mary" nel 2005) che sembrano subire l'inevitabile onda di ritorno negativa di coloro che, in fin dei conti, sono pagati per criticare. Ecco  allora che "Expo 86" riceve critiche ambigue, che hanno il tono del classico "ti lascio perchè ti amo troppo". In realtà, dopo un anno di separazione forzata, dovuta in parte alla lunga lavorazione del loro secondo disco "At Mount Zoomer" ed al conseguente tour, i Wolf Parade hanno voluto delegare i compiti produttivi ad un produttore esterno (Howard Bilerman) dimostrando una certa dose di umiltà nell'essere in qualche modo indirizzati. Quello che però avevano bene in mente è che non volevano accollarsi di nuovo la fatica di essere di editori di stessi, ma concentrarsi sulla loro musica costruendo un album fatto di canzoni dirette e facilmente riproducibili dal vivo. Ancora una volta diviso tra le composizioni di Spencer Krug e Dan Boeckner, l'album inizia e finisce con due pezzi di notevole energia ("Cloud Shadow on the Mountain" e "Cave-o Sapien") che formano un ideale recinto entro il quale si muove il resto dell'album senza mai scadere più di tanto. Le differenze stilistiche tra Krug e Boeckner si compenetrano e si completano a vicenda rimanendo distinte anche perchè esplorate altrove in progetti alternatevivi. Ma qui entrambi sono capaci di dare corpo a canzoni quali "What Did My Lover Say?" (Krug) e "Ghost Pressure" (Boeckner) che presumibilmente faranno ballare tutti coloro che andranno a vedere i loro concerti. La mancanza di un brano che in qualche modo rallenti un po la cavalcata rende il disco pericolosamente in bilico tra la coesione e la monotonia, ma, dopo ripetuti ascolti, ancora non è scattata l'ora del pulsante "Skip". 
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TEENAGE FANCLUB - "Shadows"

09:30
Dopo una carriera vantennale ed a cinque anni anni dal loro ultimo lavoro "Man Made", i Teenage Fanclub ritornano con "Shadows"  e la storia continua senza grandi cambiamenti ma con la solita costanza nel costruire perfette canzoni pop. Di fronte infatti a tutto un certo filone indie che rievoca nostalgie degli anni '60 e '70, i Teenage Funclub potrebbero dare lezioni. Il quartetto scozzese ha dalla propria parte un terzetto di musicisti compositori (Norman Blake, Gerard Love e Raymond McGinley) capaci di competere tra di loro in modo assolutamente democratico, alternandosi alla voce soliste delle proprie composizioni e facendo uso di armonizzazioni vocali che sono degne delle loro influenze (vedi Beach Boys e Byrds). Quello che viene fuori quasi sempre, e quindi anche in "Shadows", è la naturalezza con la quale sono in grado di mettere insieme canzoni dalle melodie indimenticabili con arrangiamenti sempre a servizio della canzone e mai fuori posto. Ormai lontani i fasti di "Bandwagonesque" (anche se in fondo oggi possiamo dire che l'onda lunga di quel disco forse ha  avuto la stessa influenza di quei dischi usciti nel medesimo anno quali "Nevermind" o "Loveless" dei My Bloody Valentine) i Teenage Funclub invecchiano con grazia e con consistenza, e sebbene sono ormai lungi dal rivoluzionare alcunchè, rimangono almeno una certezza e le bellissime "Baby Lee", "Sometimes I Don't Need to Believe in Anything", "Live with the Seasons" e "Today Never Ends" saranno sicuramente dolci compagne di questa estate.
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ARIEL PINK'S HAUNTED GRAFFITI - "Before Today"

03:51
Prima dell'uscita di "Before Today", Ariel Pink's Haunted Graffiti era un progetto musicale di Ariel Rosenberg, un musicista di Los Angeles con una grande musicalità ma con un apparente mancanza di qualsiasi ambizione. L'amore per la musica lo ha portato a registrare continuamente nel suo improvvisato e scadente studio casalingo, e l'approccio lo-fi delle sue produzioni sono state percepite sia come masturbazioni musicali che come genialità incontaminate. I suoi album precedenti hanno avuto una migliore distribuzione grazie all'aiuto della Paw Tracks, la casa discografica degli Animal Collective, che hanno ristampato i suoi primi dischi. Nel frattempo, Ariel ha cominciato a collaborare con musicisti veri e propri per i suoi concerti, ed oggi gli Haunted Graffiti non sono più un gruppo immaginario. Poi è arrivato il contratto con la 4AD, ed uno studio di registrazione professionale. "Before Today" suona quindi come un esordio anche se tecnicamente non lo è. Quello che risulta evidente è invece che le influenze musicali di Ariel, (che sono le più disparate e lontane ma che si legano ad un profondo amore per il pop Fm degli anni '70 e '80,) e la sua straordinaria capacita compositiva viene fuori qui in tutta la sua lucentezza senza rinunciare alla unicità e ad un gusto bizzarro che lasciano la sensazione di ascoltare qualcosa di familiare e strano allo stesso modo. Una sorta di pop progressive che ricorda Todd Rundgren ma anche il Bowie di "Station to Station" con incursioni alla Steely Dan ma anche dei 10cc. Ma fare paragoni sembra abbastanza fuori luogo, perchè "Before Today" è un album singolare ed unico, piacevole e strano, di un talento musicale assolutamente originale.
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