Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale
10:43
GIUNTI ALLA FINE DELL'ANNO E' TEMPO PER L'INEVITABILE CLASSIFICA O LISTA DEI MIGLIORI ALBUMS. QUESTA CLASSIFICA PER ME E' PARTICOLARMENTE IMPORTANTE PERCHE' E' ANCHE LA SUMMA DEL PRIMO ANNO DI VITA DI SOTTERRANEI SONORI. SPERO VOGLIATE COMMENTARE, CRITICARE E DIRMI QUALI SONO STATI GLI ALBUM CHE VI SONO PIACIUTI E VI HANNO ACCOMPAGNATO IN QUESTO PRIMO ANNO DEL NUOVO DECENNIO. NEL FRATTEMPO NON POSSO CHE AUGURARVI UN MERAVIGLIOSO 2011. AUGURI E LUNGA VITA A TUTTI.
                       
20 VILLAGERS  - "Becoming a Jackal"

Album d'esordio per il cantante irlandese, belle melodie e pezzi orecchiabili. Un piccolo Paul Simon in erba che ho avuto il piacere di ascoltare dal vivo al Knitting Factory di Brooklyn e che ha confermato il valore del disco. Decisamente da tenere d'occhio.
19 SPOON - "Transference"
Dopo l'affascinante "Ga ga ga ga ga" gli Spoon rinunciano agli arrangiamenti elaborati e ritornano a un rock essenziale e scarno. Usando un paragone blasfemo, si potrebbe dire che "Transference" sta al "White Album" come "Ga ga ga ga" sta a "Sgt Peppers". Dopo l'affascinante
18 THE MORNING BENDERS - "Big Echo"
Registrato a New York con l'aiuto di Chris Taylor dei Grizzly Bear, il secondo album dei californiani The Morning Benders segna un notevole balzo in avanti per il gruppo guidato da Chris Chu. Con "Big Echo" The morning Benders diventano un gruppo vero e trovano nello studio di registrazione l' elemento essenziale per aggiungere personalita' alla loro musica.


17 DARKEN MY LOVE - "Alive as You Are"
I Darker My Love sono stati una vera sorpresa, uno di quei gruppi di cui ignoravo completamente l'esistenza. "Alive as You Are" e' il loro terzo album, ricco di riferimenti alla scena folk psichedelica californiana degli anni 60 sia nelle voci armonizzate in stile CSN sia nei pasaggi strumentali alla Love. Un disco nostalgico, niente di nuovo ma accattivante. Il concerto al Webster Hall di New York ha confermato l'impressione che il gruppo e' in una felice fase creativa.
16 THE TALLEST MAN ON EARTH - "The Wild Hunt"
In questa strana riscoperta delle tradizioni folk guidata da gruppi quali Fleet Foxes e Bon Iver, lo svedese Kristian Mattson  si inserisce come una delle piu' originali ed emozionanti voci. "The Wild Hunt" e' un disco che si gusta come un buon bicchiere di vino o una conversazione notturna con un amico speciale.



 


15 OF MONTREAL - "False Priest
Dopo il passo falso di "Skeletal Lamping" Of Montreal ci regala un altro capitolo della loro stramba e colorata visione musicale. "False Priest" suona decisamente come un miscuglio di generi messi insieme senza la preoccupazione di essere fedele ad alcuno in particolare se non all'idea stessa della contaminazione musicale. Un disco dai colori forti, tutti in primo piano che rende il disco sempre nuovo e diverso ad ogni ascolto successivo.

14 BEACH HOUSE - "Teen Dream"
Victoria Legrand e Alex Scally continuano nella loro ricerca musicale fatta di  un certo sapore espressionistico. L'evoluzione e' lenta e fatta di piccoli aggiustamenti piu' che di cambi drastici di direzione, ma "Teen Dream" e' decisamente il loro album migliore fino a questo momento. Basta ascoltare "Zebra", la canzone che apre il disco, per cadere nell'incantesimo affascinante della loro musica che ha il potere di evocare piu' che descrivere.
13 JOHN MELLENCAMP - "No Better Than This"
Non c'e' titolo piu' azzeccato per questo album che vede John Mellencamp dare alle stampe uno dei dischi piu' belli della sua carriera e decisamente il migliore tra gli ottimi album pubblicati dai "vecchi" rockers quest'anno (vedi Robert Plant, Eric Clapton, Neil Young etc). Nonostante tutto sembri essere costruito per evocare un nostalgico elogio del passato, l'album suona sinceraremente emozionante e diretto, arrivando diretto al cuore proprio perche' concepito senza troppa testa

 


12 BELLE AND SEBASTIAN - "Write About Love"
Belle and Sebastian settimo album "Write About Love" non aggiunge e non toglie assulutamente nulla al valore del gruppo, ma e' difficile non rimanere imbrigliati nelle loro melodie e ritrovarsi a cantarle ed a fischiettarle con un piacere assolutamente irrazionale. La loro capsula temporale ne fa un gruppo assolutamente a se stante, ed e' difficile per me non inserirli in questa classifica.

11 THE BLACK KEYS - "Brothers"
Con "Brothers" i Black Keys mescolano le loro radici blues con la psichedelia dei loro ultimi due album, creando una sintesi perfetta tra passato e presente. Registrato nel legendario Muscle Shoals studio, l'album  e' una monumentale lettera d'amore al soul degli anni sessanta senza mai esserne una sbiadita copia. "Everlasting Light" e' decisamente uno dei momenti piu' alti di questo 2010 ed i Black Keys si candidano ad essere uno dei gruppi di punta del prossimo decennio.

 10 VAMPIRE WEEKEND - "Contra"
Il secondo album dei Vampire Weekend non ha colto nessuno di sorpresa come il loro esordio. Ma chi cercava appigli per dire che il gruppo era stato fortunato, ha dovuto ricredersi di fronte a "Contra". I Vampire Weekend sono una miscela di intelligenza e leggerezza come lo erano i Talking Heads negli anni '70/'80 aggiornando il vocabolario del college rock americano aggiungendo quella giusta dose di intelletualismo snob che li rende alternativi e mainstreem allo stesso tempo.


9 LIGHTSPEED CHAMPION - "Life is sweet! Nice to Meet You"
Devonte Hynes continua la sua avventura come Lightspeed Champion dopo l'esperienza con i Test Icles, confezionando un album ricchissimo di momenti musicali affascinanti. Dividendo l'album in quattro parti quasi fosse un doppio LP, il disco sembra la colonna sonora di un film immaginario. Ma quello che colpisce e' la straordinaria capacita' di scrivere canzoni sempici e complesse allo stesso tempo. Secondo me, l'album piu' sottovalutato dell'anno.


8 LCD SOUNDSYSTEM - "This Is Happening"
Ci sono diversi motivi per amare la musica di LCD Soundsystem: e' la musica dance del nuovo millennio; e' una sintesi tra elettronica e punk rock; e' ironia e cinismo nei testi nel descrivere lo scenario del popolo della notte ed e' - a dispetto di tutto - dannatamente contagiosa. "This Is Happening" e' tutto questo con una strizzatina d'occhio al Bowie di Lodger. C'e' da aggiungere altro?



 7 MGMT - "Congratulations"
Figli di un immaginario amplesso tra Flaming Lips e Suicide, il secondo album dei MGMT non solo conferma il valore del gruppo dopo il brillante "Oracular Spectacular", ma dimostra come il gruppo sia piu' interessato ad un cammino artistico che approccia l'aspetto commerciale in maniera casuale. D'altronde un album che contiene un pezzo che supera i 12 minuti non aspira certo ad entrare in classifica. Nonostante continui a pensare che la copertina sia orrida, il disco e' uno dei migliori dell'anno.

6 DEERHUNTER - "Halcyon Digest"
L'affascinante viaggio e trasformazione dei Deerhunter prende una nuova e piu' convincente forma in "Halcyon Digest", decisamente il loro lavoro piu' accessibile ma non per questo il meno affascinante. Se mai e' vero il contrario ed il gruppo  dimostra ancora una volta che essere accessibili non significa essere superficiali e che si puo' essere sperimentali senza rinunciare ad essere capiti. La bellissima "Helicopter" ne e' l'esempio lampante.


5 FIELD MUSIC - "Field Music (Measure)"
Dopo varie avventure in diversi progetti che non sono andati molto lontano,  i fratelli Brewis ritornano con il terzo album dei Field Music e quasi a voler recuperare il tempo perduto, danno alle stampe un disco doppio pieno di ottime canzoni. il gruppo sembra rinvigorito dopo la pausa, e l'album, nonostante la sua lunghezza, e' una goduria per le orecchie. L'ombra degli XTC e' ancora presente, ma i Field Music con Measure assomigliano alla somma di tutto il miglior rock inglese.

4 MAGIC KIDS - "Memphis"
"Memphis" e' a mio avviso l'album d'esordio piu' affascinante di questo 2010. "Figli" leggittimi di Brian Wilson, l'album sugue le orme del "padre" confezionando piccole sinfonie musicali nella forma canzone con una impressionante padronanza ed un gusto musicale che lascia affamati e con la voglia di ascoltare il prossimo album il piu' in fretta possibile. I Magic Kids hanno creato un piccolo capolavoro che speriamo sia solo l'inizio di una brillante carriera.


3 SUFJAN STEVENS - "The Age of Adz"
Dopo il capolavoro "Illinoise" Sufjan Stevens sembrava essersi perso: un album di canzoni natalizie, una sinfonia dedicata ad un'autostrada (la BQE di New York) sembravano indicare un momento di confusione. In realta', alla luce di "The Age of Adz" quello puo' essere visto come un periodo di ricerca. "The Age of Adz" utilizza l'elettronica in maniera creativa proprio perche Stevens non e' un artista legato al genere. Ma il risultato e' assolutamente brillante. Decisamente meno immediato di "Illinoise", "The Age of Adz" ricompensa dopo diversi ascolti ma, scavalcato l'ostacolo, e' un viaggio senza ritorno verso la bellezza pura.

2 ARCADE FIRE - "The Suburbs"
Il terzo album dei canadesi Arcade Fire non e' molto diverso dai due precedenti, ma non e' altresi uguale. L'aura nostalgica insita nel soggetto ne fa quasi un concept album sulla memoria e sul effetto che il tempo che passa lascia sulle emozioni. Il risultato e' quello di un disco ancora piu' grandioso dei precedenti. Gli Arcade Fire hanno caratteristiche letterarie come nessun altro gruppo contemporaneo ed il loro album hanno la stessa consistenza di un ottimo libro, una qualita' che nell'epoca dell'ipod e delle paylist e' abbastanza rara. E ormai chiaro che gli Arcade Fire sono la band contemporanea piu' importante pronti a rimpiazzare i Radiohead nel prossimo decennio come il prototipo di band da ammirare ed emulare.

1 JANELLE MONAE - "The ArchAndroid"
"The ArchAndroid" e' secondo me il disco dell'anno per diverse ragioni. Primo fra tutte e' un disco di musica nera che trasuda creativita' da tutti i pori e non e' un disco di hip hop.  Io sono dell'idea che l'hip hop ha da tempo perso la sua forza e "The ArchAndroid" rappresenta per me la prossima evoluzione della musica nera. Simbolicamente, e' il perfetto disco dell'era Obama in quanto ristabilisce un ponte culturale tra neri e bianchi essendo una musica inclusiva rispetto all'esclusivita' dell'hip hop. E non e' una caso che tale forze espressiva nasce dalla creativita' di una donna giovane ed afroamericana. Molto piu' di Erikha Badu, Janelle Monae puo' diventare il simbolo del prossimo decennio di una tradizione musicale che ha bisogno di nuovi stimoli. Ovviamente tutto cio' e' possibile perche' le canzoni sono straordinarie e sono pronto a scommettere che non solo "The ArchAndroid" e' solo l'inizio per Janelle Monae, ma che nel prossimo futuro in molti seguiranno il suo esempio.


































 





















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ELVIS COSTELLO - "National Ransom"

19:58
Elvis Costello e' sempre stato un autentico outsider. Sin dall'esordio nel lontano 1977 con l'ormai classico "My Aim is True", le sue influenze musicali sono sempre state cosi vaste da rendere difficile assimilarlo a generi e mode che a mano a mano sparivano dal panorama. Negli ultimi anni pero', soprattutto a partire dagli anni '90, questo suo eclettismo sembrava essersi trasformato in un difetto, ed i suoi lavori spaziavano dalla musica classica, al puro Tin Pan Alley, lasciando rare tracce dietro di se (con l'eccezione dello splendido lavoro con Burt Bucharach "Painted from Memory"). "National Ransom" sembra essere il disco che finalmente rompe l'incantesimo e ci riconsegna un Costello in piena forma. Registrato insieme a T-Bone Burnett in quel di Nashville, il disco ripercorre musicalmente tutte le forme della musica popolare americana, quelle che fuse insieme hanno prodotto infinite variazione sul tema del rock. E' un disco che varia in intensita', ritmo e stile risultando quasi in un antologia  di prestigio ben scritta, e ben strutturata. Non siamo certo di fronte ad un disco che rivoluziona il concetto di musica, ma certamente ci sono tutti gli elementi che ci ricordano il perche' Costello e' considerato uno dei grandi artisti degli ultimoi 30 anni. Sembra quasi che ci sia una sorta di revival portato avanti da artisti importanti del passato che mai come in quest'anno hanno prodotto dischi di spessore notevole. "National Ransom" si candida ad essere uno dei migliori insieme a quello di Robert Plant e di John Mellencamp.
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SUFJAN STEVENS - "The Age of Adz"

14:48
Quando nel 2005 ho ascoltato per la prima volta Sufjan Stevens, mi sono subito innamorato del suo universo sonoro. L'idea di pubblicare tanti album quanti sono gli stati degli Stati Uniti (50 per l'esattezza),  era inoltre un idea affascinante per quanto irrealizzabile. Ma "Illinoise" e' stato un tale successo (almeno da parte della critica)  che ha portato con se un inaspettata stanchezza e probabilmente una voglia di uscire da un ruolo che cominciava a stare stretto a Stevens. Ci sono quindi voluti ben cinque anni per dare seguito a quel capolavoro (che consiglio a tutti di ascoltare), inframmezzati da progetti diversi come la suite dedicata alla BQE (Brooklyn Queens Expressway) o il cofanetto di canzoni natalizie. Se si aggiunge a tutto questo una delicata questione di salute che lo ha tenuto fermo per qualche tempo, e' facile immaginare come "The Age of Adz" sia un animale diverso dal precedente. Le architetture sonore di Stevens sono tutte presente, ma l'atmosfera propende molto di piu' verso l'elettronica che non il banjo. A parte l'iniziale "Futile Devices" in cui c'e' una connessione diretta con i suoi precedenti lavori, il resto dell disco si muove tra atmosfere alla Radiohead stile Kid A o Bjork, ma senza copiarne l'impianto. Infatti sebbene il disco risulti a volte frammentario, c'e' comunque un unita' stilistica data dalla sua voce e dalle melodie che restano comunque molto piu' accessibili. La bellissima "I Walk" ha un fortissimo impatto emotivo, mentre la title track puo' essere benissimo la colonna sonora di un film apocalittico. Il disco si chiude con "Impossible Soul" che data la sua durata (oltre 25 minuti) puo' essere un disco a se'. C'e' voluto piu' tempo per entrare nel mondo di Adz, ma il sacrificio e ' ricompensato dalla scoperta che Sufjan Stevens e' uno di quegli artisti che richiede agli ascoltatori di capire piu' che essere capiti e quando le emozioni entrano finalmente in contatto con la musica, allora il piacere e' assicurato.
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BELLE AND SEBASTIAN - "Write about Love"

15:15
A quattro anni di distanza da "The Life Pursuit", il ritorno di Belle and Sebastian e' sempre una bella notizia. Per una volta e' lecito essere contenti di ottenere quello che ci si aspetta, cioe' un disco pieno di quelle atmosfere anni '60 filtrate da una sensibilita' moderna, che ha reso la loro musica inconfondibile nonostante le innumerevoli imitazioni. "Write about Love" vede di nuovo alla produzione Tony Hoffner, che ha gia' dato al suono del gruppo una produzione piu' cristallina, dove niente e' fuori posto e tutto scorre piacevolmente dall'inizio alla fine anche quando gli ospiti prendono il posto di leader nel cantato ( Norah Jones in "Little Lou, Ugly Joe, Prophet John" e  Carey Mulligan in "Write about Love"). Anche se la musica di Belle and Sebastian non cambia, quello che impressiona e' la costanza con la quale il gruppo continua a sfornare dischi di alta qualita', tanto da farlo sembrare una cosa facile da fare. Il fatto che la distanza tra gli album aumenta, non fa che creare la giusta aspettativa per un gruppo che e' capace di rimanere "indie"  parlando una lingua mainstream.  "Write about Love" si ascolta dall'inizio alla fine senza interruzione, senza bisogno di saltare nessun brano e piu' lo si ascolta piu' diventa piacevole. Il retrogusto Tamla/Motown, aiuta di certo a creare quella particolare e familiare atmosfera di gioia, soprattutto in pezzi come "The Ghost of Rockschool" e "I Can See the Future" mentre altrove, come nel pezzo d'apertura "I Didn't See it Coming" o "I Want the World to Stop", si ha l'impressione che la Swinging London degli anni sessanta non sia mai passata di moda. Insomma, Belle and Sebastian sembrano seguire il detto che dice "mai cambiare una cosa che funziona bene": infatti la loro musica e la loro ispirazione funzionano ancora benissimo dopo quindici anni di carriera.
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NEIL YOUNG - "Le Noise"

10:14
Di tutti i grandi artisti che hanno costruito il mito della musica rock negli anni '60 e che ancora sono musicalmente attivi, Neil Young e' decisamente quelo che piu' di ogni altro ha ancora lo sguardo rivolto al futuro. Nessuno puo' con certezza sapere cosa aspettarsi da un suo album, ma certamente quello che lo contraddistingue e' l'alternanza di album acustici ed elettrici (non tutti riusciti). Con l'aiuto di David Lanois, Neil Young da alle stampe "Le Noise", uno degli album piu' originali della sua recente carriera. In solo otto brani, Neil Young sfodera una potente energia accompagnandosi solo con la sua chitarra elettrica, (tranne due brani "Love and War" e "Peaceful Vally Boulevard" in cui la chitarra e' acustica) e la meraviglia e' che non si sente assolutamente la mancanza degli altri strumenti. Ma, grazie alla produzione di Lanois, non e' nemmeno un disco scarno, anzi e' un disco pieno di musica. L'attacco di "Walk with Me" apre le danze e la voce e la chitarra elettrica sono tutto quello che un artista come Young ha bisogno. Ma il senso del disco e' racchiuso nella ballata acustica "Love and War", i due temi che Young ha cercato di raccontare in tutte le sue sfumature recentemente. Mescolando ricordi personali ("Hitchicker") e riflessioni personali sullo stato delle cose ("Angry World") Neil Young e' ancora sorprendentemente vitale e la dimostrazione che il rock non ha nessuna voglia di invecchiare.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

15:43
NIRVANA
"Nevermind" (1991)
 
Quando nel 1991 i Nirvana pubblicano "Nevermind", le aspettative che il gruppo e la casa discografica ripongono sul successo dell'album sono assai modeste. Il passaggio dalla indipendente Subpop alla major Geffen offriva, ovviamente, un maggior potenziale sia nella registrazione dei brani che nella distribuzione dell'album, ma il pronostico era quello di vendere intorno alle 50.000 copie. Nessuna band proveniente dal circuito del rock cosiddeto indipendente, godeva di uno straordinario successo, ne' tantomeno della deprecabile fama. Tutti sapete com'e' andata a finire.
Il fatto che la casa discografica non avesse grandi aspettative, gioca un ruolo a favore dei Nirvana che, liberi dalla pressione di creare hits (come invece accadra' in seguito) costruiscono un capolavoro che attraversa i generi e ridefinisce il significato del rock. Quello che e' diventato un disco che ha segnato una intera generazione , non ha quindi niente di preordinato e precostituito.
"Nevermind" raggiunge il cuore e la mente di milioni di giovani in tutto il mondo per la sua originale mistura di punk, metal e pop, con riff accativanti che entrano nella testa al primo ascolto per non uscirne mai piu', e per la sua genuina dose di rabbia e frustrazione incarnata fisicamente da Kurt Cobain, dal suo modo di cantare, di muoversi sul palco, e dai suoi versi.
Rispetto a "Bleach", la produzione e' molto piu' curata, raggiungendo un compromesso tra l'immediatezza del punk e la raffinatezza del pop, soprattutto per quella che era la visione della musica da parte di Cobain. Ma c'e' anche l'entrata in scena di Dave Ghrol alla batteria che da una spinta propulsiva ai pezzi dandogli la potenza necessaria a farli diventare dei veri e propri inni.  La statura del disco ha avuto un impatto immediato sull'immaginario giovanile riuscendo nell'impresa di mettere assieme e di costruire una comunita' da tante tribu' sparse. Non e' un impresa facile ed e' anche risultato un peso troppo ingombrante da portare sulle spalle. Quando Cobain prendera' le distanze da "Nevermind" in realta' quello che ha in mente e' di togliersi immediatamente da un ruolo soffocante di messia generazionale sotto costante pressione.
D'altronde la breve parabola di Cobain e' ben nota nel mondo del rock, ma sembrava appartenere al passato, ad un mondo in cui l'innocenza e l'incoscienza andavano sottobraccio. Per questo il suo suicidio e' stato se possibile ancora piu' tragico delle morti "accidentali" di altri eroi. Anche se quello che ci resta e' un monumentale documento di estrema bellezza, non possiamo non rammaricarci della sua scelta estrema.
"Nevermind" e' ormai considerato uno dei dischi piu' importanti della storia del rock, ed i pezzi contenuti nell'album sono quasi tutti dei classici: "Smell Like Teen Spirit", "Come As You Are", "Lithium" "In Bloom" ect, fanno parte dell'immaginario collettivo e, come nota a margine, e' bello poter dire che quando i Nirvana diventarono un fenomeno mondiale, io gia' li conoscevo grazie al mio amico Marco. Le sue lacrime alla notizia della morte di Kurt Cobain, me le porto con me come un ricordo prezioso.
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SEAL - "6: Commitment"

19:10
Dopo la parentesi di "Soul", in cui reinterpretava grandi classici del soul (apputno), Seal torna con un nuovo album di inediti di grande classe. Lontani ormai i tempi di "Killer" e "Crazy", e giunto quasi alla soglia dei 50 anni, Seal si concentra sul tema dell'amore, o meglio, della relazione amorosa duratura, quella da adulti per intenderci. Il suo matrimonio con la supermodella Heidi Klum nel 2005 lo ha portato alla ribalta non certo per motivi musicali, ma qui si prende una bella rivincita. Anche se non ci sono piu' le invenzioni stilistiche di Trevor Horn che hanno caratterizzato i suoi primi lavori, siamo comunque di fronte ad una produzione di lusso, con arrangiamenti che servono a mettere in risalto l'interpretazione e la voce di Seal che in qiesto disco risulta piu' sincera che nei precedenti lavori. Sembra quasi che l'anima che ha cercato di ricatturare nel disco di cover, gli sia servita a riscoprire la sua. Non c'e' niente di rivoluzionario in questo disco, solo l'eleganza e la confessione di un uomo che tra le gioie ed i dolori e' ancora pronto a scommetere sul lavoro che bisogna fare per rendere un amore degno di questo nome. Non si ascolta Seal per trovare e scoprire le nuove tendenze musicali ma per abbandonarsi seppure per poco ad una specie di sussurro atemporale e confortevole dove la cura del dettaglio e l'attenzione ai particolari esalta ancora di piu' la bellezza di una voce come la sua. Un disco per cuori teneri insomma, ma anche per quelli che vogliono lasciare un attimo le frustrazioni fuori dalla porta ed immergersi in un confortevole bagno caldo ristoratore (possibilmente insieme alla compagna/o).
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DEERHUNTER - "Halcyon Digest"

09:22
Giunti al quarto album, i Deerhunter prendono la forma di una band originale e riconoscibile che si lascia alle spalle tutte le influenze che hanno marcato i loro lavori fino a questo punto. La direzione presa con "Halcyon Digest" e' decisamente di forte emozione, con potenti ballate come la bellissima "Helicopter" e brani accessibili ma niente affatto banali che puntano l'attenzione verso la migliore tradizione pop degli anni '60 e '70. Per entrare dentro lo spirito del disco, bisogna superare il brano d'apertura "Earthquake", che nonostante il titolo (Terremoto) e' in realta una sorta di risveglio lento o di un lento addormentamento con dei suoni elettronici di sottofondo ad un arpeggio di chitarra che appunto non si sa se ci trasporta nel mondo dei sogni o della realta'. Infatti mentre le due canzoni che seguono, "Don't Cry" e "Revival", possono in qualche modo far venire in mente un Beck senza troppi fronzoli, con "Sailing" il disco rientra in quelle atmosfere oniriche della traccia d'apertura per poi ripartire con i due brani piu' marcati dell'album "Memory Boy" e "Desire Lines" con la sua lunga coda ipnotica. La sensazione generale quindi e' quella non solo di un album composto di ottimo materiale, ma di una sequenza ben strutturata che fa si che l'album venga ascoltato nella sua interezza. La cosa e' di per se' impressionante nella nostra epoca di playlist ed ipod che hanno ridotto la nostra capacita' di concentrazione per un intero disco. I Deerhunter si propongono come una di quelle band ancora capaci di credere che un disco, tutto il disco, sia il risultato di una ricerca musicale che va al di la della singola canzone e del rispettivo video ad effetto che l'accompagna, anche se basterebbe la sola "Helicopter" a farli comunque essere presenti.
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GRINDERMAN - "Grinderman 2"

07:37
Nonostante abbia un grande rispetto per Nick Cave, mi e' difficile amarlo. I suoi lavori sono sempre molto interessanti, ma non provo mai un istintivo piacere nell'ascoltare la sua musica. C'e' sempre bisogno di concentrazione, di capire cosa stia dicendo, di usare, insomma, il filtro dell'intelletto. Le cose non cambiano molto con la sua nuova incarnazione musicale di Grinderman, anche se il progetto nelle sue intenzione e' quello di mettere in luce l'aspetto piu' animalesco ed istintivo della sua natura. Il primo disco dei Grinderman aveva decisamente una natura piu' selvaggia, mentre in questo secondo lavoro le cose diventano piu' studiate, piu' "pensate" ed in qualche modo hanno un impatto minore. Rimane comunque sorprendente il fatto che un veterano come Cave, possa mettere in scena attraverso l'uso di un blues obliquo, una visione della parte oscura della natura umana che passa principalmente attraverso immagini di violenza e sesso , che molte giovani band sono incapaci di affrontare. E' una sorta di incubo alla David Lynch, un umorismo nero che si prende beffe del perbenismo e del bene come valore primario. La narrazione composta dai brani sono di eccellente fattura, i personaggi sono inquietanti e mettono a disagio anche quando apparentemente il tema e' quello dell'amore. Un lavoro quindi che ci ricorda quanto l'animale selvaggio della nostra natura possa prendere il sopravvento in qualunque momento mettendo a rischio le nostre certezze. Basta dare un occhiata alla copertina per capire quanto questo senso di pericolo sia costantemente presente. Nonostante il lavoro di Cave colpisce molto di piu' la mia testa che la mia pancia, e' comunque interessante sapere che uscire dall'adolescenza non diminuisce affatto il bisogno di sporcarsi nel fango della vita, anche solo a livello intellettuale.
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WEEZER - "Hurley"

10:31
Non sono sicuro di quanto i Weezer siano conosciuti e seguiti in Italia, ma certamente sono una delle band piu' importanti della fine degli anni '90 in America. La loro fama si basa sui loro due primi lavori che sono oggi considerati due classici: "Weezer"  del 1994 (meglio conosciuto come The Blue Album, perche' esistono altri due album chiamati cosi' con differenti colori, rispettivamente The Green Album e The Red Album) e "Pinkerton" del 1996. Da allora, la storia dei Weezer e' stata una continua prova a staccarsi dal mito da loro stesso creato, senza pero' essere stati capaci di approdare verso altri lidi altrettanto soddisfacenti. Il ritorno ad una etichetta indipendente deve aver giocato un ruolo non secondario per la realizzazione di "Hurley" in quanto si percepisce un recupero di quell'energia che tutti aspettavano pazientemente da circa un decennio. L'album si apre infatti con la canzone "Memories" in cui  Rivers Cuomo costruisce un compendio di ricordi in cui racconta come era bello essere incoscientemente giovane e fare musica senza essere sottoposto a pressioni. I ricordi ed il passato giocano un ruolo fondamentale in "Hurley", ma il tema non sembra essere la nostalgia, quanto un riappropriarsi della propria storia per cercare gli stimoli ad andare avanti. Nella migliore canzone dell'album (secondo me ovviamente), "Unspoken", Cuomo racconta di questa difficolta, quella cioe' di trovare le motivazioni giuste per andare avanti e difendersi dagli attacchi esterni, e la canzone inizia con un un cantato morbido sotto una basi quasi acustica per finire con un urlo di rabbia su un riff quasi alla Nirvana. Ci sono insomma dei validi motivi per continuare ad ascoltare i Weezer e sperare che possano un giorno rompere quell'incantesimo che gli impedisce da un decennio di risalire ai livelli dei loro esordi. "Hurley" non e' perfetto, e ci sono ancora canzoni che si saltano, ma e' decisamente un passo verso una rinascita che potrebbe essere prossima.
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ROBERT PLANT - "Band of Joy"

07:00
Dopo il clamoroso successo di "Raising Sand" del 2007 insieme ad Alison Krauss, Robert Plant continua la sua esplorazione musicale dentro il ventre della musica del ventesimo secolo (soprattutto quella americana), con la cura di un archeologo capace di riportare alla luce e far splendere brani di un passato remoto e prossimo, grazie ad una poduzione certosina messa a servizio della sua interpretazione perfetta. Affidandosi alle cure  sonore di Buddy Miller ed impiegando musicisti dell'area di Nashville (la capitale del country per intenderci), "Band of Joy" ha una impatto più immediato del suo sofisticato predecessore , ed indipendentemente dal repertorio scelto, l'unità stilistica percorre tutto l'album sia che Plant canti un vecchio gospel ("Satan Your Kingdon Must Come Down") sia che interpreti due brani dei Low tratti dal loro album "The Great Destroyer" del 2005 ("Silver Rider" e "Monkey"). Usando poi il nome della sua band pre-Zeppelin  (Band of Joy per l'appunto),  si ha la netta sensazione che Plant abbia trovato la sua personale strada di espressione musicale, puntando tutto sulle sue doti interpretative piuttosto che su quelle compositive, seppellendo all'apparenza qualsiasi speranza di una reunion con la storica band. Non si tratta, ovviamente, di un abiura. Il paragone infatti, suggerito dallo stesso Plant, accosta "Band of Joy" a "Led Zeppelin III", nella felice convivenza di sonorità acustiche ed elettriche. L'approccio con cui Plant e Miller (con l'aiuto di Patty Griffin ad impreziosire il canto) riescono a far convivere brani che vanno dai Los Lobos ("Angel Dance") a Richard Thompson ("House of Cards) passando per sconosciuti brani r&b ("You Can't Buy My Love") o poemi del diannovesimo secolo ("Even This Shall Pass Away") sono la dimostrazione di come si possa proiettare nel futuro la gloria del passato. Passati i sessant'anni, Robert Plant continua a dettare la propria agenda senza curarsi minimamente di quello che il pubblico vorrebbe e questa prova di indipendenza risulta molto più soddisfacente di una semplice celebrazione di un vecchio mito.
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BLACK MOUNTAIN - "Wilderness Heart"

03:30
La band Canadese dei Black Mountain, giunta al terzo disco dopo l'acclamato "In the Future", ritorna con "Wilderness Heart", un album decisamente diverso dal precedente.  La decade di riferimento rimane sempre quella degli anni '70, ma questa volta i Black Mountain abbandonano ogni influenza psichedelica e progressive per concentrarsi su di una visione diretta e monolitica che racchiude in se elementi della triade sacra dell hard rock: Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath. Nonostante quindi il disco sia meno avventuroso del precedente, è in realtà molto più coraggioso perchè il pericolo in questi casi è sempre quello di sembrare una cover band anche se i pezzi sono originali. In realtà i Black Mountain non solo sono capaci di muoversi con disinvoltura sul solco tracciato dai loro "antenati" musicali, ma lo fanno anche con quel misto di rispetto ed irriverenza capace di evidenziarne i tratti originali. La mistura di hard rock e folk è equilibrata cosi come lo sono l'amalgama della voce maschile e femminile rispettivamente di Stephen McBean ed Amber Webber  dando a quest'ultima una maggiore visibilità. Indubbiamente riuscito sotto l'aspetto compositivo, l'album ha i suoi momenti migliori nelle canzoni acustiche rispetto a quelle elettriche, soprattutto nel brano d'apertura "The Hair Song" e "The Way to Gone". La sensazione generale comunque è che sebbene i Black Mountain stiano evolvendo in qualcosa di importante restano ancora troppo legati al bozzolo sicuro che li contiene. Un gran bel disco da ascoltare quindi, ma difficile da amare.


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OF MONTREAL - "False Priest"

04:15
Sebbene abbia sentito gli Of Montreal per la prima volta nel 2007 con l'uscita di "Hissing Fauna, Are You the Destroyer?", sono immediatamente caduto sotto l'incantesimo di Kevin Barnes. Il mondo sonoro degli Of Montreal è un incontenibile orgia sonora nel qule si fondono tanti di quegli elementi eterogenei da creare qualcosa di assolutamente originale. Muovendosi come un collettivo che ricorda i colori esagerati dei Parliament/Funkadelic, l'androgina bellezza del Bowie Ziggy e Aladin Sane, la new Wave anni '80 ed il Prince trasgressivo e sessuale, Kevin Barnes non ha paura dell'esagerazione, anzi ne fa un motivo estetico fondamentale del suo lavoro. Ma c'è una linea sottile che divide il confine tra un sublime incontro di colori musicali cosi diversi e un gran pasticcio senza capo ne coda. Quindi è con grande sollievo che, ascoltando "False Priest" si capisce che ci muoviamo decisamente nel campo della prima ipotesi. Evidentemente Barnes ha fatto proprie le critiche mosse al suo lavoro precedente "Skeletal Lamping", in cui molti avevano la sensazione di trovarsi di fronte ad un disco frammentario e pretensioso con sprazzi di genialità che aveva probabilmente bisogno di un produttore capace di dire alcuni no. La presenza di Jon Brion (produttore tra l'altro di Kanye West) quindi diventa essenziale in "False Priest" portando quell'esperienza e quella professionalità  che rende le visioni musicali di Barnes lucide ed accessibili nella loro follia. Quindi mentre si comincia in pieno stile Of Montreal con "I Feel Ya Strutter" durante il disco ci si imbatte nella fantastica "Coquet Coquette" che sembra suonata dai Muse in pieno trip lisergico, o in "Famine Affair" che invece "sfida" gli Strokes anche nel modo di cantare e nel testo. La presenza di Janelle Monae e Solange Knowles rispettivamente in "Enemy Gene" e "Sex Karma" rinforzano lo spostamento verso territori R&B  mai prima cosi evidenti e lascia capire quanto Barnes sia in grado di giocare e piegare i generi a suo piacimento, facendo apparire gruppi come Scissor Sisters o anche MGMT degli innocui scolaretti con tanto ancora da imparare. Non so se "False Priest" riuscirà a spostare "Hissing Fauna" dal mio cuore, probabilmente no ma certamente  balza direttamente ai vertici dei migliori albums usciti quest'anno.
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THE THERMALS - "Personal Life"

04:40
Giunti al quinto album della loro carriera, i Thermals concentrano la loro attenzione sulle relazioni amorose con lo stesso zelo con cui avevano esplorato i temi politici e religiosi in "The Body, the Blood, the Machine". Tra quell'album e "Personal Life" c'era di mezzo "Now We Can See" che segnava decisamente un abbandono dell'estetica indie lo-fi per un suono più professionale e curato. "Personal Life" continua in quella direzione ma stavolta la foto è decisamente più a fuoco della precedente. E' sempre curioso vedere dove l'energia e l'esigenza espressiva primitiva di una band giovane si incanala mano a mano che aumentano i dischi e gli anni. Esplorare quindi i sentimenti e l'amore inteso come relazione di coppia, sembra un tema da grandi e una cosa molto più difficile da fare. I Thermals affrontano l'argomento in modo semplice e diretto, con titoli che sono quasi un compendio delle frasi più dette in una storia tra due persone. Ma è significativo che l'album si apre con "I Am Gonna Change Your Life" e si chiude con "You Changed My Life". Piuttosto che essere un viaggio in cui l'amore si logora dopo l'entusiasmo iniziale è un viaggio in cui l'amore si scopre passo dopo passo, resistenza dopo resistenza. E' nel piccolo intermezzo di "Alone, a Fool", in cui Harris canta "Quando ti ho vicino sono solo" nella prima strofa e "Quando sono solo e tu sei con qualcun'altro sono uno stupido" nella seconda, che si racchiude tutto il succo del disco.  Lo spostamento dall' "io" al "tu" al "noi", sembra a tutti gli effetti molto sincero cosi come lo è la musica che lo accompagna, priva di fronzoli e diretta, per raccontare l'ennesima variazione su uno dei temi più sviscerato in assoluto. I Thermals lo fanno senza paura e riescono nell'impresa. Sebbene non sia un capolavoro, "Personal Life" mostra un gruppo in movimento pronto anche ad affrontare temi da grandi, senza apparire invecchiati.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

11:52
LUCIO BATTISTI
"Anima Latina" (1974)

Nel 1974, Lucio Battisti si trova in una posizione invidiabile rispetto a tutto il panorama della musica italiana. Il suo lavoro fino a quel momento è stato costellato da un successo dietro l'altro, con albums e singoli che sono entrati nell'immaginario collettivo. Tanto spontaneo nella composizione, quanto meticoloso nella realizzazione  in studio, Battisti ha trasformato il gusto musicale degli italiani riuscendo nell'impresa titanica di rendere accessibile a tutti (anche a quelli che lo criticavano in nome di un impegno politico e sociale mancante) un modo di concepire il pop come tradizione e sperimentazione. Chi comprava i suoi dischi si trovava immancabilmente di fronte a pezzi dall'impatto immediato vicine a cose dal sapore decisamente straniante. Da "Amore e non Amore" in poi (l'album che contiene canzoni cantate dal titolo corto e pezzi strumentali dal titolo lunghissimo) queste due anime hanno viaggiato parallelamente. Quello che rende "Anima Latina" un disco speciale, è proprio la fusione di questi due mondi in qualcosa di assolutamente unico in tutta la sua produzione. In "Anima Latina" non c'è nessun classico battistiano (di quelli che riempiono le compilation per intenderci) eppure è proprio qui che  Battisti e Mogol raggiungono un intesa perfetta.
Battisti trova ispirazione di ritorno da un viaggio con Mogol in Sudamerica, in cui i due visitano il Brasile e l'Argentina. Tutti gli stimoli accumulati durante il viaggio da l'occasione a Battisti di svincolarsi dalla concorrenza dei cosidetti "cantautori sentimentali" quali Baglioni o Cocciante che cominciavano a mietere successi seguendo le sue orme, spostandosi su un territorio più vicino al progressive della PFM, Banco o Orme senza però abbracciarne completamente la filosofia musicale. Se infatti la struttura dell'album può far pensare ad un concept (con brani che hanno una struttura svincolata dalla canzone classica e legate da intermezzi che riprendono le melodie delle canzoni principali), la musica e le liriche dell'album hanno poco a che fare con il progressive, cosi come poco ricordano le musiche dei paesi ai quali si ispira. Quello che viene fuori da questo intreccio di antico e moderno, acustico ed elettronico è un disco complesso e  mai complicato. Sin dalle note d'apertura di "Abbacciala, Abbracciali, Abbracciati" si capisce che qualcosa è cambiato. La voce messa così poco in risalto richiede uno sforzo maggiore nel comprendere i testi (che sono i migliori che Mogol ha scritto) mentre la musica diventa la vera protagonista. "Abbracciala" sembra un brano che ha l'atmosfera di un risveglio che ci porta verso "Due Mondi", l'unico brano che ha un sapore vagamente sudamericano, cantato in coppia con Mara Cubeddu. Con "Anonimo" però le cose prendono una piega diversa, con un brano che supera i sette minuti e che con i suoi cambi di atmosfera è il brano più complesso dell'album insieme a "Macchina del tempo" che virtualmente lo chiude. Ma c'è spazio anche per un ironica autocitazione de "I Giardini di Marzo"  suonata come una marcetta per banda, quasi a prendere le distanze dal proprio mito per ribadire che come artista, Battisti era sempre più avanti del suo stesso pubblico. Nel disco trovano ancora spazio momenti più vicini al Battisti classico come ne "Il Salame" ma anche ad un monumentale brano quale è la traccia che da il titolo all'album, vero e proprio capolavoro musicale e lirico.
Dopo "Anima Latina", Battisti  continuerà la sua lunga cavalcata di successi per tutti gli anni 70, ma non sarà mai più  in grado di essere così tradizionale e sperimentale come in questo album. Quando deciderà di averne abbastanza, farà a pezzi il proprio mito con quattro album dell'era Panella che punteranno decisamente alla sperimentazione avulsa da qualsiasi tradizione melodica italiana. "Anima Latina" rimane quindi un pezzo unico, non solo nella discografia di Battisti, ma anche nell'intero panorama della musica popolare italiana. Rimane sempre il dubbio di quale sarebbe stata l'importanza di Battisti se non fosse stato limitato dal fatto di essere italiano.  A me piace pensare, almeno per una volta, che sono gli altri che si sono persi qualcosa.
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INTERPOL - "Interpol"

09:15
Gli Interpol in questi anni sono stati un gruppo frustrante. Dopo il loro fulminante esordio del 2002 "Turn On the Bright Lights", cha ha contribuito non poco a rimettere New York City al centro della musica rock indipendente, hanno dato alle stampe altri due album che lasciavano presagire la classia parabola discendente di un gruppo che non aveva saputo evolversi. Non che non c'era un evoluzione, ma sembrava più una ricerca verso un equilibrio che potesse allargare le fortune del gruppo conuigando la loro parte decisamente angosciante, con strizzate d'occhio verso una pulizia sonora che puntava alla classifica. Il risultato è stato quello di creare un suono decisamente unico ma poco soddisfacente soprattutto in "Our Love to Admire". Questo disco quindi non godeva dell'attesa che in genere viene riservata a gruppi di tale importanza, almeno non da parte mia. La cosa che faceva ben sperare era un ritorno alla Matador. La speranza che il ritorno ad un etichetta indipendente potesse significare un ritorno ad un suono più autentico è parzialmente riuscito ma "Interpol" sembra più un disco interlocutorio per qualcosa che deve ancora avvenire. Significativo il fatto che il disco non contenga nessun brano che potenzialmente potrebbe essere un singolo. I pezzi che lo compongono  sono costruiti su ripetizioni ed insistenze che sembrano sempre fermarsi un attimo prima di partire, anche in quelli migliori che, forse non a caso, si trovano tutti nella seconda metà del disco (vedi "Try It On", "Always Malaise" e la conclusiva "The Undoing"). Ma se da una parte la frustrazione rimane, qui è di tutt'altra natura. C'è la sensazione infatti che il gruppo abbia in qualche modo ricominciato ad evolversi e quindi "Interpol" sembra la premessa ad un discorso musicale che però, almeno in questo disco, non arriva. Ma si è almeno riaccesa la curiosità di vedere e capire dove gli Interpol si muoveranno anche alla luce dell'uscita dal gruppo del bassista Carlos Dengler dando per scontato che un altro disco a nome Interpol ci sia in futuro.
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MAGIC KIDS - "Memphis"

02:40
Sarebbe troppo facile liquidare i Magic Kids come la versione 2010 dei Beach Boys. Indubbiamente il paragone viene subito alla mente, ma se dovessimo basare il giudizio a secondo delle influenze, quanti gruppi potrebbero salvarsi? Quello che a mio avviso ci regalano questi ragazzi, è un piccolo capolavoro pop. Le undici canzoni che formano "Memphis" hanno non solo il pregio di essere concise da superare raramente i famosi tre minuti, ma quello che succede in quei tre minuti è un esplosione di creatività messa a servizio della canzone senza una sola nota in più. Tanto più si ascolta il disco, tanto pù ci si dimentica della prima impressione e l'orizzonte si allarga. Il campo delle influenze passa in secondo quando ci si lascia prendere dalla magia che i ragazzi sono stati in grado di mostrare. "Memphis" è come quel piatto che ci piace e che dopo averlo assaggiato si vuole scoprire di quali ingredienti è fatto e più  si sposta l'attenzione dall'ingrediente principale più si apprezza la maestria con il quale sono state messe insieme tutte le parti. L'intervento dell'orchestra, il coro di bambini, i cambi armonici con accordi sorprendenti, gli spazi che ogni tanto si aprono all'interno di pezzi riducendo tutto ad un solo strumento, sono solo alcune delle cose che descrivono "Memphis". Difficile è decidere dove l'album raggiunge il suo apice, ma di tutte le canzoni quella che preferisco è senza dubbio "Summer", con la sua splendida melodia, ed un arrangiamento perfetto anche nella sua coda in stile samba. Se queste sono le premesse ed il biglietto da visita con cui i Magic Kids si presentano sulla scena non è difficle aspettarsi un capolavoro da qui a qualche anno.
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JOHN MELLENCAMP - "No Better than This"

03:16
C'è un aspetto estetico che circonda il nuovo album di John Mellencamp che risulta tanto importante quanto le 13 canzoni che compongono l'album. Quello che era nelle sue intenzioni (ed in quelle del suo partner T-Bone Burnett) era quello di ricreare l'atmosfera dei dischi come si facevano prima o durante l'avvento del rock'n'roll. In una sorta di rifiuto totale della modernità, quindi, il disco è stato registrato con un solo microfono intorno al quale hanno suonato tutti i musicisti, e con apparecchiature degli anni 50. Il disco quindi è in mono. Non contento di ciò, ad aggiungere un aura sacra sono i luoghi in cui Mellencamp ha deciso di registrare questi pezzi che comprendono i leggendari Sun Studios di Memphis (quelli dove hanno registrato Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis, Carl Perkins, Roy Orbison etc), la First African Baptist Church e, come ciliegina sulla torta, la stanza 414 del Gunter Hotel di San Antonio, la stanza cioè in cui ha inciso proprio il grande Robert Johnson. Tutto questo sarebbe già stato sufficiente a far parlare dell'album, se non fosse che Mellencamp sembra aver assorbito da quei posti un ispirazione genuina che lo ha portato a pubblicare uno dei suoi album più belli. L'album è avvolgente come una coperta calda in una notte d'inverno, e sin dalle prime note di "Save Some Time to Dream" si capisce che saremo testimoni di un passato che seppur archiviato, parla ancora con voce forte ed originale. Il folk, il rockabilly, le venature blueseggianti, sono ancora presenti in molti gruppi moderni, ma in questo disco così diretto, ci ricordano la vera funzione della musica popolare, quella cioè di raccontare la vita così com'è, così come la vivono tutti e che quindi tutti possono capire. Meglio di così, insomma, proprio non si poteva.
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ISOBEL CAPBELL & MARK LANEGAN - "Hawk"

04:00
Giunti alla pubblicazione del loro terzo album insieme, la collaborazione della ex vocalist dei Belle & Sebastian e dell'ex Screaming Trees Mark Lanegan, non sembra più strana. Per chi ha seguito la coppia nei due dischi precedenti ("Ballad of Broken Seas" del 2006 e "Sunday at Devil Dirt" del 2008) è un gradito ritorno ed un ulteriore conferma delle loro qualità artistiche. Le voci dei due protagonisti si fondono insieme come due estremi che si toccano, ed a farla da padrona è ancora quella atmosfera da bar notturno  con Campbell & Lanegan su un palco a cantare per i pochi avventori del locale intenti a bere ed a lasciarsi accompagnare da quelle note. Sebbene per questo disco Mark Lanegan non compare in un nessun pezzo come autore, la sua voce diventa preziosa soprattutto nelle interpretazioni di due pezzi di Townes Van Zandt "Snake Song" e soprattutto nella toccante "No Place to Fall". In tutto questo non mancano due belle incursioni nel rock blues corposo con "Get Behind me" e soprattutto con la title track, particolare perchè strumentale, denotando un certo coraggio per un album di un duo che fa del contrasto delle voci la loro forza. Passata la novità, quindi, resta la certezza che la coppia ancora trova stimoli per lavorare insieme e regalarci il motivo per spegnere la radio ed accendere il cuore.
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DARKER MY LOVE - "Alive As You Are"

07:30
Appena inizia l'arpeggio di chitarra e poi le voci armonizzate di "Backseat", il brano di apertura del nuovo album dei Darker My Love, si ha quasi l'impressione che all'nterno della custodia sia finito il disco sbagliato, una specie di difetto di fabbrica. Tale è il cambio di direzione preso dal gruppo californiano di Los Angeles, con due album alle spalle di rock pieno di chitarre effettate che li avvicinavano più ai My Bloody Valentine. "Alive as You Are" è tutto un altro affare. Non sarà certo un caso che per registrare questo disco i Darker si siano lasciati alle spalle le spiagge losangeline per approdare nella capitale storica della psichedelia, San Francisco. Quello che ne viene fuori è un salto in un passato glorioso che unisce l'influenza di gruppi che hanno fatto della California la meta ideale per molti gruppi dalla metà degli anni 60. Così aleggiano dietro le spalle dei Darker, le ombre giganti di CS&N, dei Byrds, dei Grateful Dead e quindi, di conseguenza, anche dei Beatles. Immagino che tutto questo può avere un duplice effetto su chi ascolta: dopo lo straneamento per il sorprendente cambio di direzione, si può rifiutare come una voglia di cercare un qualche riscontro commerciale, o abbracciare nel senso di una rivelazione di  autenticità del gruppo prima celata dietro un muri di effetti. Quello che è certo è che le canzoni sono tutte ben strutturate e funzionano benissimo nel creare quella sensazione familiare e nuova allo stesso tempo. "Alive as You Are" è quindi alla fine un disco che più che "dire" qualcosa, ribadisce un concetto già conosciuto, cioè che il rock semplice e diretto ha sempre fatto una lunga strada perchè quando si arriva alla testa attraverso il cuore, le cose restano.
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BENTORNATI!

06:44
Allora...sono finite le vacanze, si ritorna al lavoro (chi ce l'ha), e si puliscono le orecchie dalle musichette che hanno accompagnato i nostri bagordi estivi. Io sinceramente non ho nessun motivetto da appiccicare a quest'estate. Ricorderò il 2010 probabilmente come l'anno in cui ho iniziato a scrivere questo blog e quindi a scoprire e conoscere nuovi artisti e gruppi che, aggiunti alla lista di quelli che conoscevo già, mi danno l'idea di quanto sono ignorante. In questi quattro mesi che ci dividono dalla fine dell'anno tanta altra musica uscirà, ed io spero di apportare quelle modifiche al blog che ho pensato sin dalla sua creazione, soprattutto perchè spero vivissimamente di continuare a sriverlo da New York e non più da Roma.
Spero di andare a vedere tanti concerti, di fare belle foto, e di scrivere articoli anche sul Mucchio Selvaggio, probabilmente l'unica rivista musicale italiana decente che ancora esiste (il mio primo articolo sui Morning Benders lo potete trovare sul mucchio.it alla sezione "in primo piano"). Per il momento mi limito ancora a recensire cose che ritengo interessanti ed album del passato che sono importanti. Continuate a seguirmi e spero comincerete ad essere più interattivi di quanto non lo siate stati fin ora.
Comunque vi ringarzio tutti per il sostegno.
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THE CHAP - "Well Done Europe"

06:02
Cosa dire dei The Chap? Beh, per prima cosa direi che mi erano del tutto sconosciuti. Dopo una piccola e breve ricerca quindi, scopro che sono inglesi, che "Well Done Europe" è il loro quarto album, che la loro musica è una miscela di pop, rock ed elettronica e che la loro filosofia sposa un po in restrospettiva le avanguardie artistiche del novecento ma anche il Monthy Python. Volendo proprio metterla in termini brutali, potrebbero assomogliere ad Elio e le Storie Tese che suonano gli album di Battisti/Panella. Tanto per far degli esempi, sul loro sito si può trovare un assaggio dell'intero album compresso in tre minuti e mezzo, e per accompagnare questa idea, fanno la stessa cosa con i testi, comprimendoli in una serie di lettere che formano nient'altro che dei lughi codici fiscali. Il nonsense, insomma, come espressione, il gesto come forma, e la forma come sostanza. E la musica? E' decisamente interessante, in bilico tra il pop scansonato e dissonanze avanguardistiche, in cui si mescolano l'elettronica intelligente, riff di chitarra quasi rock, bassi slappati in chiave funky e testi criptici tra citazioni mondane e dissacranti bozzetti politicamente scorretti. Una bella aggiunta al catalogo di gruppi da tenere presenti, anche perchè sembra che dal vivo siamo assolutamente imperdibili. Purtroppo in Italia sono già venuti a Maggio.
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MENOMENA - "Mines"

04:32
I Menomena sono un gruppo americano di Portland (Oregon) alla loro terza prova discografica (se escludiamo "Under an Hour" composto per un balletto e contenente solo tre lunghi  pezzi strumentali). "Mines" arriva dopo ben tre anni di distanza dal precedente "Friend and Foe", l'album che gli ha dato una certa notorietà, almeno oltreoceano. La caratteristica principale della loro musica  è costituita da continue invenzioni negli arraggiamenti, una sorta di scomposizione del canone pop e ricomposizione  in una dimensione alternativa. Ad aiutarli in questa operazione, i Menomena si avvalgono di un programma per il computer da loro stessi inventato che campiona i loro riffs fino a che trovano qualcosa di buono da tenere e su cui lavorare. Sebbene tutto questo faccia pensare ad una band altamente sperimentale, il risultato del loro lavoro è ancora altamente strutturato all'interno della forma canzone. Il loro nuovo lavoro "Mines" lo è ancora di più di "Friend and Foe". Sebbene il cantato ricorda a volte quello di Damon Albarn dei Blur, il gruppo si muove negli stessi territori sonori dei TV on the Radio (e "BOTE" è certamente una traccia che avrebbe ben figurato in "Return to Cookie Mountain"), creando un affascinante intreccio di ritmi che oscillano tra il pop ed il funk, con una serie di strati musicali che sembrano apparire dal nulla e che tengono l'attenzione sempre alta in chi ascolta. Come al solito, le parole non riescono a rendere bene l'idea di cosa i Menomena sono in grado di creare, quindi non mi resta altro che sperare nella vostra curiosità di uscire dai soliti giri musicali per ascoltare qualcosa di fresco ed originale.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

04:37
MARVIN GAYE
"What's Going On" (1971)

Oltre ad essere uno degli album più belli mai registrati della storia della musica popolare, "What's Going On" è l'album che segna una svolta personale importante nella carriera artistica di Marvin Gaye. Per tutti gli anni '60, Gaye è stato uno degli artefici della costruzione del suond della Motown, ma anche quello che ne ha sofferto di più la sua impostazione di fabbrica di successi da classifica. Quelli sfornati dalla ditta di Berry Gordy, infatti,  avevano delle regole ferree per quanto riguardava il ritmo, la durata, il tema delle canzoni. E poi c'era l'immagine del cantante, sempre perfetta ed elegante, quasi a voler far dimenticare a chi ascoltava e, soprattutto, vedeva, che si trattava di artisti di colore che avevano bene o male tutti alle spalle storie di povertà e degrado urbano dei ghetti delle grandi città americane. Marvin Gaye soffriva di queste restrizioni, avendo ambizioni più alte, e cercando una emancipazione personale che lo avrebbe aiutato ad esorcizzare i suoi fantasmi. Era un uomo molto competitivo a cui piacevano le sfide ed allo stesso tempo tanto fragile da sentirsi inadeguato persino sul palco. Con Barry Gordy instaurò un legame di amore e odio (rafforzato anche dal suo matrimonio con la sorella Anna Gordy di ben 18 anni più grande di Marvin) che in qualche modo rimpiazzava la figura del padre, quel padre al quale cercherà di dimostrare la sua valenza come uomo per tutta la vita trovandone invece la causa della sua morte.
Nel periodo che precede l'uscita di "What's Going On", Marvin Gaye andò incontro ad una serie di eventi traumatici che lo spinsero fino al punto di volersi ritirare dal mondo della musica. Sul finire degli anni '60, trovò una fertile collaborazione insieme a Tammi Terrell con la quale incise tre album e numerosi singoli da classifica. Il sodalizio durò poco però, perchè Tammi Terrell morì per un tumore al cervello nel 1970, e la scoperta della sua malattia avvenne durante un concerto in cui Tammi collassò sul palco tra le  braccia di Marvin. A questo evento che segnò profondamente Marvin, si aggiunse il fallimento del suo matrimonio che lo spinsero in una profonda depressione e soprattutto nella sopravvenuta consapevolezza di non voler più essere il cantante dell' "amore" stile Motown.  La sua determinazione a non cantare più dal vivo dopo la morte di Terrell, lo indussero persino a provare a diventare un giocatore di football professionista con i Detroit Lions, ma senza successo. Proprio in questo periodo, il ritorno del fratello dal fronte di guerra del Vietnam ed i suoi racconti su quello che aveva visto durante il conflitto, danno l'idea a Marvin Gaye di comporre e registrare la canzone "What's Going On" con l'aiuto di Renaldo Benson dei Four Tops. La canzone incontrò il rifiuto di Gordy ed a quel punto Gaye si rifiutò di registrare qualsiasi altra cosa, minacciando anche di non voler più incidere con la Motown. Il singolo fu pubblicato e ebbe un successo talmente forte, che farlo seguire da un album fu obbligatorio. Marvin Gaye allora la spuntò ancora una volta e produsse l'album che lo avrebbe fatto entrare nel novero degli "Artisti" con la A maiuscola. Non solo il disco era privo di qualsiasi riferimento all'amore romantico, ma affrontava in una sorta di concept, temi importanti di attualità come la guerra, l'ecologia, la droga, la vita nei ghetti, il tutto farcito dalla consapevolezza che l'unica via di salvezza era l'amore verso gli altri seguendo l'insegnamento di Cristo. Ma oltre che tematicamente, il disco era un elegantissimo e sofisticato mix di stili musicali che si allargavano dal soul al jazz con degli arrangiamenti orchestrali lussuosi che permettevano a Gaye di mettere in mostra tutta la sua capacità  di esplorare la sua voce come uno strumento aggiuntivo. I brani superavano la lunghezza standard dei classici 3 minuti ed inoltre si fondevano una dentro l'altra formando una unità stilistica ed emotiva come mai prima. Noostante tutte queste novità, "What's Going On" non solo fu un emorme successo, ma diede anche a Gaye tre singoli in classifica che superarono il milione di copie vendute ( "What's Going On", "Mercy Mercy Me" ed "Inner City Blues"). Marvin Gaye vinse la battaglia per la propria indipendenza artististica in maniera totale con questo album, aprendo anche le porte ad altri artisti dimostrando che i temi sociali potevano vendere anche con riferimento all'insegnamento cristiano, una sorta di procedimento inverso a quanto fatto due decadi prima da Ray Charles. I successi di Stevie Wonder degli anni 70 sarebbero difficili da immaginare senza che "What's Going On" aprisse la strada.
Per Marvin Gaye questa fu una vittoria che portò con sè non solo conseguenze positive. La sua estema sensibilità lo mise di fronte al fatto che aveva raggiunto una vetta talmente alta che non c'era altra strada percorribile se non quella della discesa. Sebbene abbia prodotto almeno un altro altro capolavoro come "Let's Get It On", in effetti gli anni che seguirono possono essere visti come tale, una lenta discesa verso un inferno personale che ha trovato la fine nello sparo di pistola che lo uccise per mano di suo padre alla vigilia del suo 45esimo compleanno.
Forse tanta bellezza è il frutto di tanta sofferenza, e solo da un "Anima divisa" (titolo della splendida biografia di Marvin Gaye scritta da David Ritz) poteva venir fuori. Quello che è certo è che in qualunque epoca ci si imbatte in un capolavoro come "What's Going On" non si può che essere contenti che un simile uomo abbia attraversato questo mondo lasciando una tale testimonianza del suo passaggio che lo ha conseganto all'immortalità.
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