Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale

TITLE TRACKS - "It Was Easy"

06:29



Sembra che vada di moda trovare uno pseudonimo cha faccia pensare ad un gruppo quando invece si tratta di un solista. Ecco che allora dietro Title Tracks si cela John Davis che, dopo lo scioglimento del suo gruppo precedente Georgie James (che invece sembra il nome di un solista!!!) ha deciso di andare da solo. Se sentiva il bisogno di seguire il proprio istinto musicale in piena libertà gliene siamo estremamente grati perchè "It Was Easy" è pieno di ottime canzoni. Davis, prendendosi l'incarico di suonare per tutto il disco, lascia le cose estremamente semplici costruendo il tutto sul classico trittico di chitarra, basso e batteria, aggiungendo degli occasionali interventi di tastiere come nella cover di Bruce Springsteen "Thougher than the Rest"(cantanta insieme a Tracyanne Campbell dei Camera Obscura). Dall'iniziale "Every Little Bit Hurts" alla finale "She Don't Care about Time" (la seconda cover dell'album, questa volta dei Byrds) il disco procede fluido attraverso un campionario di rock tanto familiare quanto piacevole. Insomma questo è il quarto disco che ascolto dopo i Free Energy, Lightspeed Champion e Butch Walker, che sembra rifarsi al rock degli anni anni 70 ma quello meno celebrato del power pop dei Big Star o anche del pub rock degli Brinsley Schwartz, senza dimenticare la lezione degli anni 60 dei Beatles (ormai onnipresenti). Non so se sia un trend ma è decisamente piacevole ascoltare tanta buona musica.
Read On 0 commenti

BUTCH WALKER - "I Like It Better When You Had no Heart"

04:02

Voglio fare una piccola premessa prima di parlare di questo disco. Non ho certo Aperto questo Blog per parlare dell'ultimo album dei Gorillaz perchè quello lo troverete recensito dappertutto e le canzoni le potete ascoltare su qualsiasi radio. Quello che volgio fare è condividere alcune "scoperte" musicali di cui si sente poco parlare (almeno da noi) e Butch Walker è una di queste (e che sorpresa!!). Mi informo e scopro prima di tutto che ha 40 anni, ha fatto parte di una band metal negli anni '80 (SouthGang), poi di un trio di indie pop negli anni '90 (Marvelous 3) e poi ha intrapreso da un lato una carriera solista e dall'altra una come produttore. Come produttore Walker ha conseguito molti più successi che come solista e nel suo curriculum si annoverano nomi che vanno da Avril Lavigne a Pink, dai Weezer fino al grande successo di Kate Perry. Mi avvicino a questo che è la sua quinta prova con un po di diffidenza quindi, pensando che forse ci sarà una ragione per cui è diventato un famoso produttore ma un quasi sconosciuto cantante. Ma la diffidenza è diventato un amore incondizionato. "I Like It Better" si ama dall'inizio alla fine. Ci sono richiami alle ballate di Neil Young ("Canadian Ten"), all wall of sound di Phil Spector ("Pretty Melody"), alle melodie con sfumature alla Costello ("Temporary Title"), Il rock 'n roll ("Day/Months/Years") e John Lennon ("They Don't Know What We Know"). Un piacere quasi fisico questo gioco al rimando, che viene uniformato dal produttore Butch Walker. Il disco infatti non ha una stonatura, la sequenza dei brani è fluida, i suoni limpidi e puliti ma mai di maniera con interventi che vestono le canzoni al meglio. Insomma un gran bel disco che mi ha fatto venire voglia di andare a cercare i quattro precedenti. Un gioiello pop come se ne sentono pochi.
Read On 0 commenti

LIGHTSPEED CHAMPION - "Life Is Sweet! Nice to Meet You"

03:47

Lightspeed Champion è lo pseudonimo adottato da Devonte Hynes, già membro dei Test Icicle, e qui alla sua seconda prova solista.
La copertina dell'album può sicuramente essere fuorviante: sembra un disco blues e la canzone che apre l'album si chiama "Dead Head Blues".
Invece il disco è un ricchissimo catalogo di musica disparata ed ispirata di pop barocco, country e western, spruzzate funk e melodie accattivanti. Con due intermezzi musicali e per un totale di 15 canzoni, Hynes ha tanto da dire e non si risparmia, costruendo un affascinante lavoro, uno di quei dischi che fa della varietà il suo punto forte.
Lightspeed Champion è uno di quegli artisti difficilmente catalogabili perchè il suo amore per la musica è totale. Sia che si tratti del quasi funk di "Marlene" o del pop di "Madame Van Damme", dal barocco quasi Queen di "The Big Guns of Highsmith" alle tinte soul di "Smooth Day at the Library", il disco riesce ad essere un lavoro unitario, pieno, inventivo.
Il picere di incontrarti è nostro.
Read On 0 commenti

FREE ENERGY - "Stuck on Nothing"

05:25

Sarà che è uscito il sole, che si sente aria d'estate, che le giornate si allungano...però quanto tira questo disco. Contrariamente a quanto siamo abituati a sentire recentemente, i Free Energy puntano direttamente al ventre più che al cuore degli anni '70. Canzoni da ballare e da cantare, senza troppi trucchi, senza artifici, dirette alla pancia. Questi pazzi fanno venire volgia di mettersi jeans scampanati e magliette colorate, di andare fuori la sera a divertirsi, di alzare al massimo il volume della macchina mentre si viaggia.
Sembra strano a prima vista che il disco sia uscito per la DFA di James "LCD Soundsystem" Murphy, che è un etichetta generalmente dedita ad un sound elettronico. Ma se pensiamo a quanto retro c'è nel gusto musicale di LCD Soundsystem, Rapture, Hercules and Love Affair, allora i Free Energy hanno un loro perchè. Ma questa volta ad essere aggiornati sono il canone dei T-Rex, dei Thin Lizzy o dei Cheap Trick, con una padronanza assolutamente impressionante.
"Stuck on Nothing" è un disco da godere più che da ascoltare: mentre con i Beach House ci si può immaginare seduti su una spiaggia d'inverno ad ascoltare il suono delle onde, con i Free Energy sulla spiaggia si corre, ci si libera di tutti i vestiti e si fa un gran tuffo rinfrescante con assoluto piacere.





Read On 0 commenti

THE MORNING BENDERS - "Big Echo"

06:50
"Excuses" è una di quelle canzoni che non riesce ad uscire dalla mia testa. Nella migliore tradizione pop dei Beatles e dei Beach Boys, ha una melodia così solare e mette talmente di buon umore che è quasi impossibile non rimanerne catturati. Essendo poi la canzone di apertura dell'album diventa anche una dichiarazione di intenti, una promessa, un invito a farsi trasportare con delicatezza dalla musica dei Morning Benders.
Il bello è che la promessa viene mantenuta per tutto l'album. Le atmosfere del disco vengono filtrate attraverso la sensibilità indie pop che è assicurata dalla presenza di Chris Taylor dei Grizzly Bear a dividere gli oneri della produzione con il cantante Chris Chu. Insieme, i due Chris costruiscono il giusto connubio tra melodie che suonano quasi antiche ed una sonorità assolutamente moderna. E' infatti la lezione di "Pet Sounds" che qui si perpetua e che dimostra quanto questo dei Beach Boys sia assolutamente uno dei dischi più influenti di tutta la musica pop. La produzione è infatti brillante di per se, capace com'è di sottolienare l'importanza dello studio senza mai distogliere l'attenzione dalla canzone (cosa che invece avviene assai spesso). La semplicità qui rimane il pregio fondamentale. Canzoni come "Promises", "Wet Cement" o "All Day Daylight" non hanno bisogno di molto di più di quello che già hanno.
Speriamo solo che questo grande eco arrivi a più orecchie possibili, perchè ogni volta che un disco così bello viene prodotto, si dovrebbe fare festa.
Read On 0 commenti

BROOKLYN BROOKLYN TAKE ME IN

07:42


"Brooklyn, Brooklyn, accoglimi" cantano gli Avett Brothers in "I and Love and You", canzone che da il titolo anche al loro ultimo lavoro. La citazione mi serve per parlare di quella che sembra essere ormai una certezza: Brooklyn è diventata il centro della musica indipendente americana.
Non esiste un sound unico delle bands che hanno fatto di Brooklyn la loro casa, ma esiste qualcosa che sembrava essere scomparso: un senso di appartenenza ad una comunità speciale che da alla musica una credibilità ed autenticità legata al contesto territoriale. I vari musicisti dei vari gruppi interagiscono molto tra di loro, frequentano gli stessi locali, calcano gli stessi palchi e quindi, anche se suonano musiche diverse, finiscono per influenzarsi a vicenda. La loro quasi totale appartenenza ad etichette indipendenti ne rinforza l'idea di artisticità e di libertà espressiva in netta contrapposizione con le produzioni delle majors ormai agonizzanti. I diversi generi musicali prodotti vengono uniformati dall'idea di sperimentazone e di contaminazione che sono tratti tipici di tutti i gruppi che sono venuti alla ribalta.

Sia che si tratti delle sofisticate atmosfere dei Grizzly Bear, o delle intricate architetture sonore dei Battles, delle influenze orientaleggianti dei Gang Gang Dance e degli Yeasayer o delle armonie vocali degli Animal Collective fino alla neo psichedelia degli MGMT (uno dei pochi gruppi ad incidere per una major) tutto sembra venire da una radice comune. Questi gruppi infatti si preoccupano poco di creare l'hit single e puntano invece ad un idea di progetto sonoro che li distingue e li accomuna allo stesso tempo.

Una menzione speciale va fatta per i TV on the Radio. Il fatto che siano prevalentemente afroamericani non è una differenza di poco conto. Le influenze qui infatti includono jazz, soul, hip hop fino al doo woop il tutto filtrato da una sensibilità indie rock che probabilmente li fa essere una spanna avanti a tutti gli altri. Se infatti questo contagio e questa idea del Brooklyn sound si espandesse alla comunità afroamericana su larga scala, allora forse assisteremo in futuro non solo ad un fenomeno benvenuto ma anche a qualcosa di completamente nuovo.










Read On 0 commenti

TITUS ANDRONICUS - "The Monitor"

11:29
Quest settimana apriamo con un disco alquanto singolare. I Titus Andronicus sono un gruppo del New Jersey, la patria cioè di Bruce Springsteen. La loro musica deve molto al boss se non altro nel modo di descrivere la vita della provincia americana dove, il sogno (americano), ha quasi sempre l'aspetto dell'incubo. Musicalmente parlando però, i Titus Andronicus sono più figli del punk rock senza disdegnare incursione folk alla Pogues ed i riferimenti letterari li avvicinano ad un Conor Oberst (Bright Eyes) impazzito.
"The Monitor" è un concept album sulla guerra civile americana, ma non ha un linea narrativa perchè gli occhi sono disperatamente puntati sul presente. C'è rabbia, disperazione, quasi rassegnazione nei testi urlati più che cantati. Una urgenza espressiva che sembra volerci dire che la guerra non è ancora finita, perchè ancora siamo "noi contro loro", ed "il nemico è dappertutto". Ma la musica non è affatto triste. Rimane l'unica cosa a cui ricorrere per riuscire ancora a far sapere al mondo che esistono anche loro. E' talmente importante che le canzoni si allungano, cambiano al loro interno, gli strumenti si moltiplicano come in un disperato tentativo di far durare l'unico momento felice il più a lungo possibile. Questa contraddizione è insita nella società americana dove la speranza e la rassegnazione vanno di pari passo. Per questo il disco può assere a volte autoindulgente, sovraccarico, ripetitivo; in questo caso, però, non è affatto un difetto.
Read On 0 commenti

BEACH HOUSE - "Teen Dream"

03:34
Ci sono due tipi di storie che accompagnano l'evoluzione dei gruppi musicali. La prima è quella dell'esordio fulminante. Questa categoria viene subito esaltata dalla critica e spinta dall'industria discografica verso un vortice di interviste, concerti, apparizioni che tolgono tempo all'evoluzione artistica; registrano in fretta un secondo album che viene visto come una conferma del proprio talento e si infrangono sullo scoglio del terzo album che, nel migliore dei casi viene visto come "interlocutorio" e nel peggiore come una battuta d'arresto. La seconda categoria è invece quella che progredisce verso il successo e che in genere trova nel terzo album la giusta combinazione ed il giusto bilanciamento di tutti gli ingrdienti che compongono il loro percorso artistico.
I Beach House appartengono a questa seconda categoria e con "Teen Dream" hanno prodotto un piccolo gioiello. L'album si apre con la splendida "Zebra" che ci introduce in questa sorta di sogno dalle variazioni minime in cui Alex Scully e Victoria Legrand ci accompgnano tra tappeti di tastiere, arpeggi di chitarra e splendide melodie. Rispetto ai due precedenti lavori la batteria si sente di più ma niente di ballabile. La musica evoca più che raccontare, e lo fa con una delicatezza che a volte nasconde tratti malinconici ed inquietanti, come tutte le cose belle. C'è una sorta di aura nostalgica che pervade il loro lavoro come se questa "Casa di Mare" fosse il realtà un rifugio invernale isolato piuttosto che un posto di vacanza.
C'è forse bisogno di più di un ascolto per sintonizzarsi sulle loro atmosfere, ma una volta entrati si rimane volentieri fino alla fine.













Read On 0 commenti

10 ANNI DI MEMORIA

13:41
Appena entrati nel terzo mese della seconda decade del nuovo millennio, cominciano a fiorire classifiche sui migliori dischi degli anni zero (ma nel 2060 come li chiameremo? non di certo i migliori dischi degli anni 60!).
Francamente, nonostante il gioco mi ha sempre trovato complice e mi diverte, trovo abbastanza arbitrario stabilire l'importanza storica di un disco che è uscito da meno di 5 anni.
Non sorpende affatto quindi se l'album più bello del passato decennio risulta essere "Kid A" dei Radiohead uscito proprio nel 2000. Devo ammettere che è un disco che non ho affatto amato quando è uscito. All'epoca pensavo che si trattasse di un disco in cui i Radiohead avevano scientificamente sabotato la loro predestinazione a diventare gli U2 del nuovo decennio dopo il clamoroso exploit di "Ok Computer" (disco che invece ho profondamente amato).
A dieci anni di distanza invece, "Kid A" è la riprova, semmai ce ne fosse bisogno, che i dischi "importanti" hanno bisogno di tempo per essere capiti, anche da chi trova un disco bello al primo ascolto. Una critica infatti, per essere efficace, deve coniugare il gusto personale con l'onestà intellettuale che ci permette di ammetere gli sbagli oltre che gioire per la nostra visione lunga.
Quindi, per ritornare al tema, eccomi qui ad iniziare la settimana con una lista di dischi del decennio passato che sono importanti solo per me, senza ordine, senza classifica ma con un criterio: cioè il disco che mi ha entusiasmato di più per ogni anno di questo decennio.

2000 - COLDPLAY
"Parachutes"
Se fossimo stati ancora nell'era del vinile questo disco avrebbe avuto i solchi consumati dalla puntina per quante volte l'ho ascoltato. E' stato un disco così sorprendente per la maturità stilistica che sembrava che i Coldplay avessero inciso canzoni per anni. Si sentivano gli echi dei Radiohead melodici ma soprattutto a me ricordavano molto i Pink Floyd melodici. "Yellow" e "Trouble" andavano forte ma le mie canzoni preferite erano la scarna ballata iniziale di "Don't Panic" e la malinconica "We Never Change". Nonostante ho continuato a seguirli fino ad oggi, quell'effetto sorpresa non è più tornato. i Coldplay non sono riusciti a spingersi molto più in la di quanto avevano fatto con questo con discoma è poi cosi importante?


2001 - THE STROKES
"Is this it?"
"Ma come è possibile che il più bel disco dell'anno suoni come come uno dei Velvet Underground?" Così diceva il mio amico giornalista Guido Bellachioma, e lo diceva lamentandosene. Ma qell'anno gli Strokes erano sulla bocca di tutti e molto lo si doveva al fatto che erano riusciti nell'impresa di far parlare nuovamente di New York City non per l'attacco alle torri gemelle. In effetti dei Velvet c'era parecchio ma non era una copia. Mancava tutta la genialità sperimentale di Lou Reed e ancor di più di John Cale ma era una ventata di aria fresca che non si respirava più dai tempi di "Nevermind". Canzoni corte, tirate, cantanto strascicato, affreschi cittadini, ed una stoccata alla polizia newyorkese. Tutto già sentito ma tutto così maledettamente affascinante.


2002 - RED HOT CHILI PEPPERS
"By the Way"
Ho amato questo disco al primo ascolto perchè non era affatto come me l'aspettavo. Mi aspettavo le solite tirate funk and rock che pur avevo amato tanto in "Blood, Sugar Sex Magic" ma che poi mi avevano deluso in "One Hot Minute" ed un po' stancato in "Californication".Ma qui i Red Hot scrivono canzoni con stili ed arrangiamenti cosi diversi tra loro che era un piacere scoprire che potevano essere energici e vitali anche suonando il basso senza "slappare".C'era la voglia di andare oltre, di scrivere qualcosa che assomigliasse di più ad una ricerca musicale invece di una semplice asserzione del loro talento. Con il seguente "Stadium Arcadium" si cimenteranno anche nell'opera monumentale di emulare il "White Album" con tutti i pregi e tutti i difetti ma sembrava più un passo indietro date che "By the Way" era il loro "Abbey Road"


2003 - OUTKAST
"Speakerboxxx/The Love Below"
Ho un ricordo vivissimo della prima volta che ho visto il video ed ho ascoltato "Hey Ya!". Ho subito pensato che sarebbe stata la canzone del decennio e, qui scusate la modestia, credo proprio che lo sia. Vi ricordate la pubblicità delle fruitjoy in cui si dice "Sei capace a mangiare una di queste senza masticare?" Beh, di "Hey Ya!" si potrebbe dire "Sei capace ad ascoltare questa canzone senza ballare?" tanto è irresistibile. L'ho sperimentato personalmente in tutti i locali newyorkesi; era la canzone del buon umore. E poi la trovata geniale di pubblicare un album doppio a nome Outkast quando tutti li davano ormai per sciolti me li ha resi ancora più simpatici. Tutte le stravaganze di Andre 3000 sembravano ai miei occhi la somma sconclusionata di George Clinton e Prince e quindi non avrei saputo come allontanarmene. Perchè a distanza di tempo, devo dire, la parte più hip hop dell'album, quella di Big Boi per intenderci, non ha mai fatto breccia in me. Sicuramente non è il loro album migliore ma con quel singolo avrebbe fatto furore anche se il resto fosse stato scritto da Gigi D'Alessio.


2004 - FRANZ FERDINAND
"Franz Ferdinand"
Il 2004 è stato l'anno in cui mi sono trasferito a New York. La mia eccitazione era alle stelle per tanti motivi, uno dei quali era che sarei potuto entrare in un negozio di dischi e trovare finalmente tutte le novità discografiche celebrate dalla critica e addirittura a dei prezzi che erano più bassi anche di quanto li pagavo io lavorando in un negozio di dischi. E poi le colonnine delle novità del Virgin Megastore di Union Square (ora chiuso!!!) erano una tappa obbligata tutti i martedi. Quando quindi ho letto dei Franz Ferdinand me li sono andati a sentire con una lista di altri cd da ascoltare. Ma non sono riuscito ad ascoltare altro. Ho ascoltato l'intero disco e non volevo disperdere quella sensazione di piacere provata nell'ascoltare quel disco rock che mi faceva ballare. "Take me out", secondo me, è ancora oggi il loro pezzo più bello.


2005 - SUFJAN STEVENS
"Come on Feel the Illinoise"
Con questo disco ho pienamente realizzato il fatto che stavo vivendo fuori dell'Italia. Sufjan Stevens ha cominciato ad incidere nel 2000 ed io non ne avevo mai sentito lontanamente parlare. Sembrava anche un nome strano per prenderlo sul serio. Però ero rimasto affascinato dall'idea che seguiva un progetto altamente difficile da terminare: scrivere cioè un album per ogni stato degli Stati Uniti. Sembrava quasi una scaramanzia per avere una lunga carriera. E invece...una valanga di idee brillanti, un opera degna della follia compositiva di Brian Wilson, con intermezzi e canzoni orchestrali o solo chitarra acustica, e strumenti che entrano da tutte le parti come se non riuscisse più a fermarsi. Poi quei titoli delle canzoni così lunghi da far sembrare i titoli dei film di Lina Wertmuller delle monosillabe! Una vera e propria goduria, e questo è solo il secondo stato preso in esame (Il primo era il Michigan).


2006 - AMY WINEHOUSE
"Back to Black"
Dopo "Hey Ya", "Rehab" rimarrà una delle canzoni di questo passato decennio. Ma tutto l'album dava da un lato questa sensazione gioiosa degli anni d'oro della Motown ma dall'altra la sofferenza con cui Amy Winehouse cantava le sue peripezie la facevano assomigliare più ad una nuova Nancy che questa volta era decisamente più importante del suo Syd. Purtroppo la sue canzoni erano così vere che poi in rehab c'è dovuta andare per forza, lasciando uno spazio prontamente occupato da Lily Allen, Kate Nash e Lady Gaga. Ma mentre queste ultime appaiono forti e decise nelle loro provocazioni, ad Amy Winehouse mi ci sono affezionato anche per la sua sguaiataggine che riusciva a farti fare un sorriro, scrollare un po la testa per l'incredulità ma sempre continuando a sperare che almeno la musa rimanesse dalla sua parte a tenerla con noi.


2007 - OF MONTREAL
"Hissing Fauna, Are You the Destroyer?"
Questo è sicuramente uno dei dischi più singolari che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni. Sono rimasto affascinato dalla sua atmosfera acida, dalle sbilenche melodie, dai ritmi elettronici quasi dance di alcuni brani brani e dalle evocazioni quasi oniriche di alcuni altri. Ma quando sono andato a vedere i testi, allora il disco mi ha completamente catturato e non mi ha lasciato più. Il disco si è infatti un ghigno sarcastico ed acuto sull'osservazione delle cose che ci circondano e come ci fanno sentire dentro. Una citazione per tutte dal brano "Groenldandic Edit": "Sono soddisfatto di nascondermi a casa del nostro amico e di uscire una volta al giorno per fare un po di spesa. Di giorno ho la mente assente e di notte incontro nuove ansietà. Allora mi sto auto cancellando? Spero di no. Immagino sarebbe bello donarmi completamente ad un Dio ma quale, quale scegliere? Tutte le chiese piene di perdenti, psicopatici e confusi mentre nella mia io voglio solo trattenere il divino e dimenticare tutto lo spreco della bellezza".
Amen.


2008 - VAMPIRE WEEKEND
"Vampire Weekend"
"Cape Code Kwassa Kwassa" mi ha subito fatto addrizzare le orecchie: quattro ragazzi dalla Coumbia University che rendevano omaggio alle sonorità etniche percorse da Paul Simon in "Graceland" citando anche Peter Gabriel nel testo non potevano non attirare la mia attenzione. Quindi è cominciata l'attesa per stabilire se quello era stato solo un colpo di fortuna. Quando finalmente è uscito l'album all'inizio del 2008 si è capito al primo ascolto che c'era tanta sonstanza. Le canzoni erano tutte brillanti, immediate a concise. Era il punk che aveva spostato la sua attenzione dal reggae giamaicano al pop africano creando un ibrido altamente concettuale. Questo mondo veniva anche ribaduto dalle invenzioni nei testi, che svelano il mondo al quale questi ragazzi appartengono mettendo in rima "Louis Vitton" con "Raggeton" e "Benetton". Loro chiamano il loro stile "Upper West Side Soweto" e per loro è stato coniato il termine di Ivy League Rock (rispetto al più generico college rock). Già solo il fatto di aver inventato un termine per identificare la loro musica è motivo di soddisfazione; se poi aggiungiamo che è perfettamente azzeccato per gioiellini come "Mansard Roof", "Oxford Coma" e "A-Punk" allora credo che in futuro saremo in buona compagnia.


2009 - U2
"No Line on the Horizon"
Sicuramente gli U2 di questo passato decennio non hanno inventato niente di nuovo. Ma se è vero che da un lato si è parlato per ogni loro uscita come di un ritorno al passato più rock ed immediato, dall'altra si è cercato di liquidarli frettolosamente come autocelebrazione o peggio ancora autoparodia senza niente da dire.A me pare che nessuna delle due definizione sia comprensiva di quello che in realtà oggi gli U2 rappresentano. ll rock immediato è in mano ai giovani gruppi inglesi come gli Arctic Monkeys mentre le sperimentazione elettroniche sono quasi di competenza esclusiva dei Radiohead. Gli U2 hanno cercato di trovare una strada personale che non erano riusciti a definire perfettamente fino a qui. Ma "No Line on the Horizon" sembra una perfetta somma di tutte le strade che hanno percoso. C'è ancora tanta voglia di suonare e di farlo bene, da professionisti, certo, per un pubblico adulto, certo, ma anche noi abbiamo diritto ai nostri 15 minuti di celebrità.

Bene. Dopo questa lista del tutto arbitraria di dischi che sono stati emotivamente importanti per me, aspettiamo che il nuovo decennio chiarisca e dia spessore alla musica che ci ronza ancora fresca nelle orecchie.
E a voi quali disci vi hanno accompagnato?

Read On 1 commenti

SPOON - "Transference"

07:25

Gli Spoon sanno scrivere canzoni. Da quando sono stati "licenzianti" dall'Elektra hanno attraversato l'ultimo decennio aumentando il loro status di indie cult band. Da "Girls can tell"(2001) fino a "Ga ga ga ga ga" (2007) hanno continuato a migliorare album dopo album mostrando una consistenza invidiabile.
Il 2010 inizia per loro con questo "Transference" che ancora una volta ne mette in risalto le qualità stilistiche ma lo fa con più urgenza ed immediatezza dei loro ultimi lavori. Producendo per la prima volta l'album da se stessi, gli Spoon mantengono al minimo la strumentazione puntando sulla forza della loro musicalità. Ascoltando il disco si ha quasi l'impressione di essere in una sala prove, c'è un'intimità calda che rende l'atmosfera familiare. Allo stesso tempo però questa urgenza rende l'album più ruvido e complesso anche se mai complicato. Ed è proprio questo che rende l'intero disco così affascinante: non è di facile presa ma è insinuante ed ogni ascolto entra sempre più in profondità. Rinunciando alla brillantezza dello studio, gli Spoon sembrano volerci far capire che a volte non è affatto necessario ricorrere ad arrangiamenti elaborati quando si ha a che fare con materiale che funziona per quello che è, cioè un ottima canzone pop.
Qui di ottime canzoni ce ne sono molte; dall'iniziale ballata dolente di "Before Destruction" fino alla quasi disco della conclusiva " Nobody Gets me but You" gli Spoon sfoggiano una miriade di stili ed influenze da farli apparire come i custodi saggi di una tradizione in via d'estinzione.
Read On 0 commenti

PETER GABRIEL - "Scratch my Back"

06:21

Quando ho letto che sarebbe presto uscito un nuovo album di Peter Gabriel mi ha subito colto l'eccitazione dell'attesa; quando ho letto però che si trattava di un album di covers mi ha preso un grosso spavento.
Peter Gabriel ci ha sempre abituato ad attese lunghe tra un album di canzoni e l'altro (6 anni tra "So" ed "Us" e addirittura 10 tra "Us" ed "Up"). Queste attese venivano diluite da lavori come colonne sonore ed album strumentali che ci davano un' idea della direzione verso la quale si stava dirigendo. Questi album hanno sempre rappresentato la sua parte intellettuale e razionale mentre negli album di canzoni, soprattutto grazie alle sue liriche, questa razionailtà si piegava al sentimento ed alle emozioni.
"Scratch my Back" è il tentativo di far convivere questi due aspetti allo stesso tempo e con la stessa importanza. L'utilizzo delle covers per Peter Gabriel è un tentativo di dialogo e di confronto con chi ha scritto quelle canzoni. Per questo "Scratch my Back" prevede un secondo capitolo nel quale gli artisti omaggiati da Gabriel renderanno il favore incidendo sue canzoni. Nello scegliere le canzoni, Gabriel offre anche un'idea di continuità e contiguità con il suo mondo sonoro. Le dodici canzoni che compongono l'album sono equamente distribuite tra suoi contemporanei (David Bowie, Lou Reed, Paul Simon, Randy Newman, Neil Young e Talking Heads) ed artisti più giovani (Radiohead, Elbow, Arcade Fire, Bon Iver, Regina Spektor e Magnetic Fields). A ben vedere tutti quanti questi artisti hanno in comune l'idea di far convivere razionalità e sentimento e proprio per questo hanno costruito un percoso estremamente originale che li rende assai diversi uno dall'altro.
Per rendere il tutto omogeneo, Gabriel si impone una regola: eliminare l'elemento ritmico di basso e batteria. Questa autoimposizione (assai rischiosa) diventa la chiave di lettura per entrare nelle canzoni da un altro angolo; il limite diventa lo stimolo per inventare nuove e originali soluzioni. L'idea quindi di affidarsi agli arrangiamenti orchestrali è perfettamente logica. Questo non solo rende tutto il progetto omogeneo, ma fa brillare le canzoni di una luce diversa in cui viene messo in evidenza la potenza del testo e della melodia.
Risulta quindi del tutto inutile giudicare questo lavoro paragonando le versioni originali con quelle di Gabriel perchè non si tratta di un omaggio ma di una interpretazione vera e propria del materiale altrui per esprimere il proprio punto di vista, ed il punto di vista di Peter Gabriel, comunque la pensiate, resta sempre originale ed affascinante.
Read On 0 commenti

CROSSOVER

04:23
Una delle frasi storiche della storia del rock è quella pronunciata da Sam Phillips in quel di Memphis : "Se potessi trovare un bianco con il sound ed il feeling dei negri farei un miliardo di dollari".
Questa frase leggendaria, al di là della sua autenticità, può essere applicata a più riprese attraverso tutta la storia della musica rock da Elvis Presley fino ad Amy Winehouse. Ma questo vuol dire anche che quasi sempre c'è voluto il filtro di un artista bianco per far conoscere al grande pubblico quel sound e quel feeling, rubandosene il merito. Quasi sempre, appunto. Esistono infatti delle notevoli eccezioni di artisti afro-americani che, rivolgendo consapevolmente la loro attenzione anche ad un pubblico bianco sono diventati immuni da qualsiasi espropiazione indebita del loro merito e del loro talento. E' possibile quindi tracciare una linea di continuità che va da Chuck Berry passando per Jimi Hendrix, Sly Stone e Prince fino ad arrivare a Ben Harper. Questi artisti non sono mai stati percepiti come "neri" ma non hanno mai cercato di compiacere il pubblico bianco eliminando quelle caratteristiche sovversive nella loro musica.
Chuck Berry è stato il cantore della modernità celebrando l'esuberanza giovanile fatta di automobili, scuola, sesso e divertimento ma anche fornendo il prototipo del riff di chitarra per eccellenza. E' proprio con lui che la chitarra diventa il principe degli strumenti. Ma Chuck Berry è anche il primo "poeta" del rock capace di rappresentare tutti i sogni e le aspirazioni di una intera generazione. Johnny è il primo di una lunga serie di eroi che sogna di vedere il suo nome brillare su di un cartellone e la Sweet Little Sixteen può essere a suo modo considerata la prima groupie. Ma l'epoca in cui Chuck Berry opera questa orgogliosa rivendicazione è ancora un epoca in cui la tensione razziale è alle stelle. Nel 1962 viene infatti condannato al carcere per l'accusa di aver trasportato illegalmente una minorenne dal Messico per scopi immorali (prostituzione) nel 1959. Il rock'n roll sembrava passato di moda, e l'America perbenista e puritana sfornava idoli giovanili rassicuranti, belli e sopratutto bianchi.
Ma l'ondata dei gruppi inglesi che dalla metà degli anni '60 invase letteralmente le classifiche americane riportò di nuovo alto lo scompiglio. Gruppi come i Rolling Stones e gli Animals e gli stessi Beatles prendevano ispirazione addirittura dai bluesman oltre che da Berry. E mentre questa invasione sembrava senza fine, l'erede diretto di quella tradizione invertì la tendenza "invadendo" il Regno Unito. Prima di lui, gli eroi della chitarra elettrica si chiamavano Eric Clapton e Jeff Beck: Hendrix sembrò spazzarli via nel giro di una notte dal quel trono. Formatosi suonando con la band di Little Richard e poi con quella degli Isley Brothers, Hendrix era troppo ambizioso e geniale per restare nelle seconde linee. E' presumibile pensare che se anche non fosse andato a Londra sarebbe comunque diventato famoso ma la sua clamorosa ascesa nel Regno Unito ed il suo trionfale ritorno in patria diede a tutti l'impressione che più che dagli USA Hendrix venisse da Marte. Le sue trovate sceniche (suonare la chitarra coi denti o dietro la schiena o addirittura incendiarla) non erano certo nuove ma il suono che usciva da quella chitarra non si era mai sentito prima e, a differenza dei bluesmen che lo avevano preceduto, impossibile da imitare. Le sue innovazioni e sperimentazioni tinsero di nero anche quella che sembrava una musica nata in un contesto tutto bianco: la psichedelia e tutta la scena di San Francisco. Probabilmente la sua ascesa ha contribuito a mettere in ombra un'altra importante figura che invece proprio da San Francisco veniva fuori sul finire degli anni '60 (ma oggi pienamente riconosciuta come tale). Il valore di Sly Stone ( e della sua Family Stone) non è certo inferiore a quella di Jimi Hendrix. Il suo primo abum intitolato "A Whole New Thing" (Una cosa completamente nuova) già la dice lunga sulle sue intenzioni e direzioni musicali. Sebbene fossero contemporanei (entrambi i loro primi album sono datati 1967) Sly mantenne più saldamente ancorate le radici della sua musica alla tradizione afroamericana ma miscelandola con rock a psichedelia, e soprattutto presentando un gruppo formato da bianchi e neri, uomini e donne era l'immagine dell'avverarsi del sogno promesso della love generation. L'integrazione brillava nella musica oltre che nell'immagine del gruppo attraverso la contagiosa gioia di pezzi come "Dance to the music", "Everyday People" e "I Want to Take You Higher". Ma con Sly & The Family Stone si fa largo anche un commentario sociale e politico prima di allora abbastanza sconosciuto tra i cantanti di colore. E questo commentario diventa sempre più cinico e disilluso man mano che appare evidente come le promesse degli anni 60, del movimento dei diritti civili, della pace si infrangono una dopo l'altra. Nonostante album come "Innervision" di Stevie Wonder o "What's Going On" di Marvin Gaye siano maggiormente conosciuti per i loro affreschi sulla condizione di vita degli afroamericani degli anni '70, "There's a Riot Going On" di Sly & The Family Stone ne restituisce l'atmosfera anche attraverso le sue cupe e affascinanti atmosfere musicali influenzando maggiormente le generazioni future. Certamente i suoi echi (insieme a quelli di Jimi Hendrix) si ritrovano tutti in Prince. In un decennio che ha visto l'emergere dell fenomeno Hip Hop da un lato e la popolarità stellare di Michael Jackson dall'altra Il folletto di Minneapolis è riuscito a ritagliarsi un posto unico e al di sopra degli altri. La sua capacità di fondere funk, soul, rock e folk lo rendono uno dei più singolari talenti della storia del rock. Prince ha reso nera la new wave con il suo "Dirty Mind" ed i suoi innesti stilistici sopra il solido sound "nero" hanno creato capolavori come "Purple Rain" e "Sign 'O The times". I suoi concerti, negli anni '80, erano il massimo a cui si poteva assistere portando avanti contemporaneamente l'idea di Sly Stone di un gruppo di musicisti uomini e donne, bianchi e neri e raffinando sempre di più le sua bravura di musicista capace di sonare ogni cosa che possa emettere un suono. Con Prince scompare anche l'idea del cantante in qualche modo influenzato dalle droghe. La sua droga appare essere il sesso che diventa talmente esplicito da diventare una delle cause dell'applicazione del bollino "Parental Advisory" sulle copertine degli album. Quando negli anni novanta la sua stella comincia a tramontare sembrava che nessuno fosse in grado di prenderne il posto. Le influenze dell'hip hop (con le quali lo stesso Prince sarà costretto a fare i conti) si erano allargate fino a renderla una musica "accettabile" per quasi tutti. Ma sul finire del decennio Ben Harper tiene alta la bandiera sollevata 40 anni prima da Chuck Berry. Seppure in maniera meno appariscente dei suoi predecessori, in lui continuano a convivere tutte le caratteristiche dell'inclassificabile artista di colore. Nella sua musica si sente il funk ma anche il folk, il rock ed il gospel con una punta di psichedelia. Ma a Ben Harper sta a cuore anche il commentario politico e sociale come dimostra soprattutto "Fight for Your Mind" quasi a testimoniare che nonostante si sia fatta molta strada, molta altra ce nè ancora da fare. A differenza dei suoi predecessori però, Ben Harper non sembra suscitare grandi entusiasmi da parte della critica. Forse la ragione risiede nel fatto che la sua musica appare poco moderna, scarna di elettronica e computer, addirittura conservatrice. La sua sembra quasi una caparbia ostinazione contro il tempo, contro i tempi che stiamo vivendo in cui sembra non esserci più spazio per artisti di questa fattura.
Questo può voler dire che le barriere razziali si sono completamente abbattute per fondersi in un unica razza di consumatori, che l'uguaglianza tanto cercata si è avverata su di un piano al ribasso di tutto, che siamo entrati in una fase nella quale la musica è diventata solo un sottofondo, una parte piccola della vita dei giovani, forse neanche così tanto attraente. Ma è anche vero che il rock ci ha sempre riservato sorprese ed ha sempre dato il meglio di sè nei momenti di crisi in cui sembrava essersi esaurito.

Forse la dinamica bianco/nero non ha più ragione di esistere avendo abbattuto l'ultimo tabù di eleggere il primo presidente USA di discendenza afroamericana. Se così fosse, allora questi artisti dovrebbero essere citati nei libri di storia ma se così non fosse allora avanti il prossimo!





Read On 0 commenti

FIELD MUSIC - "Field Music (Measure)"

02:44
Tre anni fa mi sono imbattutto in questo gruppo inglese quando avevano dato alle stampe il loro "Tones of Town", incuriosito dal fatto che le recensioni li mettevano sulla scia della migliore tradizione del pop inlgese che passa dai Beatles via XTC. Il disco mi colpì moltissimo ed i critici avevano ragione. Amando i Beatles alla follia ed essendo un grande estimatore degli XTC ho ascoltato il disco per settimane durante le mie traversate nella metropolitana newyorkese. Era anche un periodo in cui uscivano tantissimi gruppi interessanti dal Regno Unito, tutti più o meno attesi alla seconda prova e tutti decisamente considerati più hip (Arctic Monkeys, Maximo Park, Bloc Party). "Tones of Town" quindi, nonostante le buone recensioni, non ottenne un gran successo.
I fratelli Brewis si sono quindi presi del tempo, formando due gruppi distinti per inseguire le loro idee musicali. Ed ora ritornano con questo "Field Music (Measure) nel quale danno sfoggio di tutto quello che hanno imparato. Per farlo ci regalano (Attenzione! Attenzione!) niente meno che un album doppio! Una cosa d'altri tempi vista la deficienza di attenzione provocata dall'avvento dell'ipod in ognuno di noi. Ma i Field Music sembrano avere questo pericolo bene in mente e per scongiurarlo hanno creato un capolavoro.
Se è vero che il metro di giudizio degli album doppi si misura sull'album bianco dei Beatles allora anche questo disco è esattamente come la sua copertina: schizzi superbi di colore su di un pentagramma a formare qualsiasi cosa volete vederci. Le venti canzoni che compongono il disco sembrano uscite da una jam session in cui si sono alternati Paul McCartney e Brian Wilson, Jimmy Page e Jimi Hendrix, Prince, gli XTC ed i Pink Floyd.
Le canzoni cambiano continuamente direzione, ritmo, umore e tutte contenute nello spazio di meno di 4 minuti. Proprio mentre credi di aver catturato una linea melodica od un ritmo interviene una sorpresa, una virata in cui entrano nuovi elementi che suonano familiari ma che non si ha il tempo di collocare e quindi vogliono essere riascoltati ancora.
Ma in questo zapping musicale nella storia della musica rock non c'è niente di stonato e la sua apparente frammentarietà diventa una consistenza stilistica. Superato il primo impatto di completo spaesamento ci si lascia trasportare in questa montagna russa musicale con la curiosa aspettativa di vedere quante discese e salite sarà ancora in grado di prendere.
Mi capita molto spesso, dato il mio amore per la musica, di ascoltare dischi belli od interesanti; raramente mi capita di ascoltare un disco di cui mi innamoro. L'ultima volta è successo con "Illinois" di Sufjan Stevens; ora è successo di nuovo. Qesto, per me, è il primo capolavoro del nuovo decennio.









Read On 0 commenti

Followers

Pagine

"Il giornalismo musicale è fatto da persone che non sanno scrivere che
intervistano persone che non sanno parlare per persone che non sanno
leggere"

Frank Zappa



Powered by Blogger.

Cerca nel blog