Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale

I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

06:38
Quando nel Marzo del 1967 viene dato alle stampe l'album d'esordio dei Velvet Underground, musicalmente parlando l'attenzione è rivolta da tutt'altra parte. Questo è infatti l'anno in cui esplode la psichedelia e San Francisco diviene il centro della "controcultura". In Gennaio ha luogo il "Human Be-In", in cui tantissimi giovani manifestano apertamente la loro disubbidienza contro la legge Californiana (entrata in vigore nell'ottobre del 1966) che rendeva illegale l'uso dell'LSD e che sarà una prova generale per l'evento più importante della "Summer of Love", cioè il Monterey Pop Festival, che renderà evidente quanto quello che stava succedendo, non era un fenomeno locale. Le parole d'ordine sono la pace, l'amore libero, le droghe come esperienza che espande la coscienza, il misticismo indiano. Il tutto è suggellato dall'uscita di "Sgt Peppers" dei Beatles che all'epoca è considerato l'apice massimo mai raggiunto da un gruppo musicale. Quarant'anni dopo, l'album più influente di quella stagione è considerato "The Velvet Underground & Nico": come mai? Probabilmente perchè, con quella stagione, l'album d'esordio dei Velvet non ha assolutamente niente da spartire. Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker non solo sono diversi, ma hanno una naturale avversione per tutto quello che concerne il movimento hippie e quando si recheranno in California per suonare nell'ambito dello spettacolo multimediale ideato da Andy Warhol "Exploding Plastic Inevitable", la repulsione sarà reciproca.
L'incontro tra Lou Reed e John Cale e poi quello con Andy Wharol è ampiamente documentato e la loro vicenda, così intrisa di creatività e scontri di personalità, ha dato ai Velvet quella patente di autenticità che manca a molti gruppi. Wharol mette a disposizione non solo le risorse finanziarie, ma anche tutto un mondo di plastica, vero e finto allo stesso tempo, fatto di personaggi autentici e di autentici scalatori sociali in cerca dei loro quindici minuti di notorietà. La Factory è il regno dell'effimero elevato ad arte, ed in quel microcosmo da ghetto intellettuale, Lou Reed troverà tutto il materiale che cerca senza muoversi molto. Qui non ci sono i colori psichedelici, ma il nero scelto anche stilisticamente nell'abbilgiamento. Non c'è l'amore libero ma l'amore ossessivo e deviato come quello del sadomasochismo. Non c'è l'LSD che espande la coscienza e che fa prendere consapevolezza, ma l'eroina che annichilisce. E infine non c'è un senso di appartenenza ad un destino comune proiettato verso un futuro migliore, ma la sensazione di una catastrofe individuale che non lascia nessuna speranza e si limita a documentare l'ineluttabile condizione di corrutibilità dell animo umano.
Questa umanità messa a disposizione da Wharol e raccontata in maniera così diretta da Lou Reed, diventano esplosive passando sotto il segno delle idee musicali di John Cale. E' un musicista nel vero senso della parola con una formazione classica ed un'esperienza maturata anche nel gruppo di musica contemporenea di LaMonte Young. Ma Cale non è una mente accademica, e quello lo affascina di Lou Reed (oltre all'amore per la stessa droga) è il fatto che un autore di canzoni rock senza nessuna formazione musicale era naturalmente ed inconsapevolmente capace di comporre con uno stile che Cale perseguiva dopo anni di studio.
Questo incontro raggiunge l'apice con "Heroin" che, descrivendo in prima persona l'effetto della droga con un testo assolutamente realistico da parte di Reed, musicalmente si muove su minime variazioni di accordi giocando sulla dinamica del pezzo, che aumenta e diminuisce, si riempie di suoni e poi diventa scarna, rendendo perfettamente la sensazione delle parole, ma dando anche un ulteriore e subdolo commento dell'esperienza dell'eroina.
Anche quando il disco gioca sui toni  pacati della ballata romantica (vedi "I'll be Your Mirror", "Sunday Morning" o "Femme Fatale"), non c'è mai quel senso di pace o di rilassatezza. Due di queste ( insieme a "All Tomorrow Parties") sono cantate da Nico, la modella tedesca voluta da Warhol nella formazione. Questa idea provocò non poche tensioni all'interno del gruppo. Affiancare la crudezza dei testi e della musica dei Velvet all'immagine della bellezza eterea della biondissima Nico, era un'altra delle idee estetiche di Wharol.
L'importanza di Wharol per i Velvet, ha avuto un duplice impatto: se da un lato ha permesso al gruppo di esprimersi liberamente e compiutamente senza censure, dall'altra, la loro affiliazione con la Factory, li ha fatti percepire da molti come un progetto musicale di Wharol. Quando la gente andava al Plastic Exploding Inevitable, partecipava ad un evento multimediale di Andy Warhol piuttosto che ad un concerto dei Velvet Undergound.
Se tutti questi elementi messi insieme parteciparono alla scarsa ricezione del disco (che inoltre, proprio per i temi trattati, non aveva nessun passaggio radiofonico), ne hanno allo stesso tempo alimentato il mito e l'influenza. Il fatto che il disco sia il frutto di tante tensioni, dimostra come in realtà l'arte che nasce dallo scontro, è capace di esprimere una bellezza atemporale. Ancora oggi, l'esordio dei Velvet suona ricco di contraddizioni e bellissimo. E' un disco in cui convivono gli estremi, la bellezza e la bruttezza, l'alto ed il basso, l'arte come concetto razionale e furia primitiva.  Non c'è sintesi, ma convivenza di opposti, e proprio per questa sua natura amorale, per questo suo riconoscere il lato oscuro dell'anima e celebrarlo con la stessa importanza del lato luminoso che "The Velvet Underground & Nico" ha superato, col tempo, qualsiasi altro documento musicale dell'epoca.
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BROKEN SOCIAL SCENE - "Forgiveness Rock Roecord"

04:23
Per coloro che ancora non avessero familiarità con i Broken Social Scene, vale la pena ricordare che quello di Toronto, più che un gruppo è un collettivo di musicisti che ruotano intorno ai fondatori Kevin Drew e Brendan Cunning e che generalmente fanno parte di altri gruppi o hanno progetti solisti. La formazione quindi varia di disco in disco, quello che è importante è il risultato. Questo spirito comunitario è sempre stato il pregio ed il difetto di gruppi del genere, ma in "Forgiveness Rock Record", tutto sembra funzionare bene, almeno per la maggior parte del disco. Difficile è categorizzare il suono dei Broken Social Scene, perchè l'apporto di ogni musicista sembra spostare il baricentro del gruppo di canzone in canzone. L'apertura comunque è affidata alla bellissima "World Sick" che suona potente e diretta e che, seppur superiore ai sei minuti, rappresenta la faccia più rock dei Broken insieme a "Forced to Love" e "Water in Hell". Poi c'è spazio per pezzi più acustici come "Slippery Highway Jam" o "Sentimental X's" dove  le voci femminili prendono la ribalta e pezzi più sperimentali come "Chase Scene" o la strumentale "Meet me in the Basement". Questo continuo spostamento, sebbene risulti poco omogeneo,  alla fine è quello che genera la forza del disco dopo ripetuti ascolti. Rifiutando l'appellativo di supergruppo, i Broken Social Scene continuano sulla loro strada dimostrando come la musica sia un unione di intenti più che una questione di personalità individuali. La cosa può sembrare scontata ma da noi, per mettere insieme e far collaborare i nostri musicisti, ci vuole per lo meno una catastrofe naturale!
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WOODS - "At Echo Lake"

05:09
Continuando la sequenza dei gruppi che vengono da Brooklyn, i Woods sono certamente uno di quelli più prolifici. Nati nel 2005, hanno dato alle stampe una serie di album ed Ep che ne hanno documentato la loro crescita musicale. "At Echo Lake", il nuovo album, rappresenta  sicuramente un traguardo, il punto di arrivo in cui le loro influenze finalmente trovano un posto originale rimandendo presenti ma senza essere eccessivamente dominanti. Quello che è deciamente migliorato è la qualità delle canzoni, il modo in cui sono arrangiate e cantate, dando alla loro produzione lo-fi intrisa di folk rock fortemente indebitata con i Byrds, una compiutezza che non gli era mai riuscita in precedenza. Sin dalla copertina si capisce che l'album ha un aspetto solare/estivo che ricorda però più un falò serale piuttosto che una spiaggia affollata. L'album si apre con la canzone più lunga "Blood Dries Darker" che appartiene molto di più alle sonorità californiane che a quelle della grande mela, per poi procedere con "Pick Up" dove un sottofondo di rumori danno un aria  alquanto minacciosa ad una altresi dolce melodia. Seguono le due canzoni più riuscite dell'album, rispettivamente "Suffering Season" e "Time Fading Lines" per poi procedere con canzoni sempre più corte verso il finale di "Til the Sun Rips", una ballata acustica che conclude un album piacevole. Il seguito dei Woods è tutto da scoprire, perchè con "At Echo Park" sembrano aver raggiunto un apice che richiede una svolta, ma per adesso, sono tutti da godere.
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SLEIGH BELLS - "Treats"

07:57
C'è una storia tutta Newyorkese dietro il duo che forma gli Sleigh Bells.  Derek Miller e Alexis Krauss infatti si incontrano in quello che viene comunemente conosciuto come un parcheggio degli artisti in attesa di sfondare: il  ristorante. Mentre Derek Miller lavorava come cameriere in un ristorante brasiliano a Brooklyn, infatti, Alexis Krauss era li a mangiare con sua madre. Menzionando il fatto che stava cercando una voce femminile per un suo progetto musicale la madre di Alexis candida sua figlia. Miller aveva fatto parte di un gruppo hardcore (Poison to Well) mentre Alexis, da adolescente, cantava con gruppo pop (Rubyblue). L'incontro fortuito, come nel migliore dei casi, ha costituito l'unione perfetta ed ora gli Sleigh Bells sono al loro esordio con l'etichetta di M.I. A. e , almeno fino ad ora, sono il gruppo rivelazione dell'anno. L'effetto che si ha ascoltando "Treats" è quello di un assalto sonoro che non accenna mai, se non in rari casi, a diminuire. Costituito essenzialmente dalla chitarra elettrica di Miller che spara riffs ad altissimo volume su dei ritmi campionati  di batteria e percussioni elettroniche, questa onda sonora viene cavalcata da Alexis Krauss con la sua voce gentile, fatta di melodie ed armonie semplici a costituire la perfetta antitesi della musica che assume una forza incredibilmente notevole proprio in virtù di questa apparente contraddizione. Il singolo "Tell 'em" ne è la perfetta incarnazione: appena lo si ascolta si ha la forte tentazione di fermare quel terribile rumore, una tentazione che continua per tutta la durata del brano perchè in realtà è una tentazione al quale non si può resistere, bella e terribile come le facce cancellate delle cheerleaders della loro copertina. Un disco forte, da amare o odiare a secondo dei casi ma che certamente non lascia indifferenti, proprio come la miglior arte dovrebbe fare.
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JOSH RITTER - "So Runs the World Away"

06:53
Josh Ritter è sicuramente uno di quegli artisti che riesce ancora a dare piena dignità alla parola "cantautore". In questo senso, quello cui ci troviamo di fronte è un disco che ha il sapore di un libro di racconti, ed il tema che lega  ognuno di essi è l'esplorazione. Non inporta il risultato, l'importante è lasciarsi trasportare dalla curiosità della conoscenza. Il viaggio, insomma, è più importante della meta. Il tema non è di certo nuovo, ma Ritter lo fa con un gusto del racconto infarcito dal suo background di studioso delle neuroscienze al quale era indirizzato seguendo le orme di entrambi i suoi genitori, e dal quale ha deragliato scoprendo Dylan, Cash e Choen. E allora il disco si popola di creature tormentate come l'archeologa cha ha una storia d'amore con la mummia che scopre in Egitto ("Curse"), o il capitano di una nave che attraversando il polo finisce per fare a pezzi la sua nave per riscaldarsi e non morire ma che ne parla come se fosse la sua donna ("Another New World"). La sua immaginazione letteraria nel descrivere i mille modi in cui si può scoprire il mondo circostante, è accompagnato da un lavoro musicale che veste le liriche in modo appropriato, partendo da una base tipicamente legata al folk ma aggiungendo qua e là invenzioni negli arrangiamenti per dare all' album una varietà altrettanto valida tanto quanto i testi. Quindi le influenze si allargano fino a comprendere un pezzo alla Tom Waits in "Rattling Locks" in cui Ritter in un cantato/parlato  dice "Non c'è niente di nuovo nel mondo che non abbia imparato stando fermo in questo posto", quasi a mettere in dubbio tutta la tesi del disco. Ma infondo è proprio il dubbio che fa muovere le cose, a creare le condizioni per la ricerca, a mettere l'anima in subbuglio per ricercare la pace.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

02:54
THE JIMI HENDRIX EXPERIENCE
"Are You Experienced?" (1967)

Quando nel 1966 Jimi Hendrix sbarca in Gran Bretagna è ancora un emerito sconosciuto in cerca di fama. L'occasione di attraversare l'Atlantico gliela fornisce Chas Chandler, bassista degli Animals che lo vede suonare in un locale del West Village di New York dove Hendrix si era trasferito alla ricerca di un posto nel firmamento musicale dopo aver trovato assai limitante (ma certamente non privo di insegnamenti cruciali per la sua presenza scenica) il ruolo di semplice musicista per artisti di gran calibro, tra i quali Little Richard e gli Isley Brothers. Chandler è in America per un ultimo tour con gli Animals che vuole lasciare per intraprendere la carriera di produttore. I due si incontrano all'inizio del tour degli Animals, e Chandler spiega ad Hendrix le sue intenzioni di portarlo con se in Gran Bretagna alla fine del tour. Hendrix è intrigato soprattutto dalla promessa che di incontrare Eric Clapton ma, data la sua provenienza e le sue esperienze, non crede che Chandler si rifarà vivo. Quando invece Chad ritorna in settembre a conclusione del tour, impiega quattro giorni per rimettersi in contatto con Hendrix e, dopo una serie di piccoli aggiustamenti anche illegali di documenti, porta Hendrix con se nel giro di poco tempo. Quelli che erano abituati a vederlo frequentare i locali del Village in cerca di serate, semplicemente non lo videro più in giro. Quando ritornò in America, era il più grande chitarrista del mondo.
L'esordio discografico di Jimi Hendrix sotto la sigla del Jimi Hendrix Experience è probabilmente il più grande esordio discografico della storia del rock. Preceduto da una serie di singoli, tournee in Gran Bretagna ed Europa (tra cui una fantasiosa accoppiata con i Walker Brothers ed Engelbert Hunperdinck) ed apparizioni televisive ("Ready, Steady, Go!" e "Top of the Pop") l' album mette in risalto tutta l'abilità di Hendrix di padroneggiare la chitarra come se fosse parte del proprio corpo. Tutti i chitarristi famosi che lo videro esibirsi in Gran Bretagna prima dell'esordio discografico, (Clapton, Jeff Beck, Townshend) ebbero un brivido freddo  lungo la schiena, quasi un presagio di imminente fine della carriera, riconoscendo che quello che stava per abbattersi sulla scena musicale sarebbe stato un ciclone che avrebbe spazzato via tutto e tutti dettando nuovi standard.
Quello che si può ascoltare su "Are You Experienced?" è l'esplosione di una creatività che finalmente trova un luogo in cui esprimersi e che supera anche la paura di Hendrix di considerarsi un cantante modesto. Quello che il mondo conoscerà da li  a poco come un esuberante "freak" dalla straordinaria carica sessuale, era in realtà conosciuto da molti intimamente come un tipo timido e riservato, dai modi gentili e che considerava la propria musica l'unica ancora di salvezza personale di fronte al mondo.
Solo attraverso la musica Hendrix riesce ad esprimersi compiutamente costruendo un mondo alternativo che sembrava anticipare un futuro dalle radici lunghissime, e proprio perchè alla musica delega la funzione di rilevatrice del proprio se, Hendrix faticherà non poco nella ricerca di una strada su cui proseguire incastrandosi nel vicolo cieco della fama e del successo dalla quale, purtroppo, non sarà in grado di uscirne vivo.
Quello che ci ha lasciato, rende ancora più frustrante l'idea che se ne sia andato troppo presto, perchè "Are You Experienced?" era una promessa di libertà, un intreccio fecondo di generi, un dialogo tra interiorità ed esteriorità. Tutto questo lo si ritrova anche nelle sue liriche che sono sempre poco apprezzate. Basta solo l'esempio di "Manic Depression" per capire questo sentimento di spaesamento di fronte al mondo che può essere curato solo dalla musica. Jimi Hendrix canta "So quello che volgio, ma non so come ottenerlo" per poi augurarsi "musica, dolce musica, vorrei poter accarezzare".
Lasciando da parte tutte le speculazioni sul cosa avrebbe fatto se fosse vissuto, e concentrandosi su quello che in realtà è riuscito a produrre con solo tre album da studio, certamente tutti noi abbiamo la fortuna di accarezzare quella dolce musica (ma anche ruvida e selvaggia) di cui Hendrix parlava, e quella dolce musica è la sua.

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PAUL WELLER - "Wake Up the Nation"

06:13
Passati i cinquant'anni e con una carriera trentennale alle spalle, Paul Weller continua ancora a pubblicare albums che meritano la nostra attenzione. Quella guadagnata due anni fa con "22 Dreams" (un album doppio dalle tinte psichedeliche) lo ha evidentemente rinvigorito benchè "Wake Up the Nation" sia una cosa diversa. Qui siamo di fronte ad un artista che torna direttamente ai suoi amori ed alle sue influenze, con canzoni che nella maggior parte dei casi non supera i 3 minuti. E' lo spazio che separa i Jam dagli Style Council quello che Weller riempie nella sua carriera solista, formando un corpo produttivo di notevole spessore. C'è la rapidità del punk con l'amore per la musica nera, un moderno rock 'n roll che non è solo testimone di tempi andati ma che anzi dimostra come la musica che amiamo, spogliata di tutti i successivi strati aggiunti nel corso del tempo, è ancora dinamica, fresca, affascinante e mantiene tutto il suo potere seduttivo. In "Wake Up the Nation" Weller tira fuori il meglio di sé e lo fa anche circondandosi di collaboratori/amici, come l'ex Jam Bruce Foxton o Kevin Shields dei My Bloody Valentine, mettendo insieme nello spazio di  poco più di quaranta minuti 16 canzoni grondanti entusiasmo ed energia invidiabili.
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KAREN ELSON - "The Ghost Who Walks"

05:56
Karen Elson è una delle donne più fotografate al mondo essendo una modella internazionale. Nata in Inghiltera, ha, come tutte le modelle, raggiunto successo e fama giovanissima. Elson però ha anche una passione musicale che l'ha portata a fondare una troupe cabarettistica di artisti e musicisti chiamata Citizen's Band con la quale si è esibita a New York cantando sia canzoni originali sia cover. Poi, nel 2005, ha incontrato Jack White (si ancora lui) sul set di un video dei White Stripes e i due si sono innamorati e quindi sposati. Non è stato facile per Karen Elson far ascoltare le proprie composizioni ad un marito così famoso, ma quando alla fine c'è riuscita, lui si è proposto di aiutarla a produrre e suonare la batteria nel suo disco di esordio "The Ghost Who Walks" appunto.  Certamente tutto questo può sembrare una forma di nepotismo ed è assai facile cedere alla tentazione di dire che senza White, probabilmente Karen Elson non avrebbe fatto questo disco. Ma White è un esperto produttore e, nonostante si senta la sua mano su tutto il disco, riesce a mettere in luce le qualità della moglie come autrice e musicista. Il titolo richiama il modo in cui Karen Elson veniva chiamata ai tempi della scuola (essendo appunto pallida, con i capelli rossi e magra) ma di certo quel fantasma si è presa una bella rivincita. Il disco è pervaso da una vena country che ricorda il lavoro gia fatto da Jack White con Loretta Lynn (anche se non siamo a quei livelli di eccellenza) soprattutto nella intensa "Lunasa" mentre "Cruel Summer"  e "The Last Laugh" potrebbero essere benissimo dei successi dimenticati di Dolly Parton. Non manca un richiamo all'esperienza cabarettistica con "100 Years for Now" mentre sia la title track che "The Truth Is in the Dirt" hanno il tocco rock inconfondibile di Jack White, soprattutto nell'uso dell'organo. Vedremo se Karen Elson saprà continuare la sua ricerca musicale e camminare con le proprie (bellissime) gambe. Di certo "The Ghost Who Walks" dovrebbe almeno convincerla che il talento non le manca. 
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THE DEAD WEATHER - "Sea of Cowards"

07:17
La velocità con la quale i Dead Weather danno alle stampe il loro secondo album dopo "Horehound" del 2009, lascia intendere la voglia di fare sul serio e di presentarsi come una vera band piuttosto che un progetto parallelo tra amici. Ma dal momento che questa è la terza band messa in piedi da Jack White dopo i White Stripes ed i Raconteurs, non possiamo essere certi che questa duerà di più dello spazio di due albums. Niente di cui preoccuparsi comunque, dato che ormai dovrebbe essere chiaro che al nostro piace ritagliarsi spazi creativi diversi. Tanto per cominciare, nei Dead Weather Jack White suona la batteria lasciando il posto di chitarrista a Dean Fertita dei Queens of the Stone Age. Chiudono il cerchio il bassista dei Raconteurs Jack Lawrence ed alla voce c'è la cantante dei The Kills Alison Mosshart. Tutto uguale al loro debutto, ma con qualche differenza. Alison Mosshart qui prende decisamente le redini vocali, mettendo in mostra tutto il suo fascino da regina oscura e le interazioni con Jack White funzionano alla perfezione. Fertita non fa certo rimpiangere la chitarra di White che con Lawrence forma invece una vigorosa sezione ritmica degna degli Zeppelin. "Sea of Cowards" è semplicemente un disco più coeso del precedente che ribadisce però lo stesso amore per la parte viziata e malata del blues restituendolo al suo legittimo proprietario: il diavolo!
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JAMIE LIDELL - "Compass"

03:41
Negli ultimi due album, Jamie Lidell ha percorso la strada del neo-soul, dando alle stampe due dischi, "Multiply" e "Jim", che si lasciavano alle spalle gli esperimenti techno condotti con la collaborazione di Christian Vogel nel progetto Super_ Collider. Questi due dischi mettevano bene in risalto la capacità di Lidell come cantante, e, soprattutto in "Jim", sembrava che avesse trovato la sua strada fuori dall'elettronica. Ora, a due anni di distanza, "Compass" rimescola di nuovo le carte in tavola. Innanzitutto a condividere la sedia della produzione c'è Beck, cosa che già di per se da un indicazione di come questo disco doveva essere diverso dai due precedenti. Ma il balzo in avanti qui è di proporzioni notevoli. C'è una collisione dei due generi che rende questo un disco di soul glaciale o di elettronica calda, a secondo di come la volete vedere. La cosa che rimane costante è la performance vocale di Lidell, capace anche di cimentarsi con canzoni dalle tinte più rock come nella bellissima "You Are Walking" o nella ballata quasi acustica della title track. Abbandonata la purezza del soul anni 60, qui entrano in gioco le sperimentazioni alla Sly Stone  o alla Prince ma in modo molto meno evidente, facendo di Lidell un artista che invece di rincorrere i generi può dettarne di nuovi. 
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

04:06
LED ZEPPELIN
"IV" (1971)

Quando nel 1971 i Led Zeppelin pubblicano il loro nuovo album, erano un gruppo non molto amato dalla critica, specialmente da quella inglese. Costruiti sulle ceneri degli Yardbirds da Jimmy Page, erano considerati a dir poco presuntuosi e famosi soprattutto per le loro scorribande nei tour americani dove si sentivano più a loro agio che nella conservatrice Gran Bretagna, dove invece vivevano la loro dimensione familiare. Queste due facce si possono ritrovare facilmente nella loro musica, tra le grandiose e potenti esplorazioni di blues elettrico alla massima potenza e la loro anima acustica e folk, esplorata profondamente nel loro terzo album. Questi due aspetti della musica dei Led Zeppelin, trova un sintesi massima proprio nel loro quarto lavoro.
In reazione alle critiche espresse verso gli album precedenti, l'idea di Jimmy Page fu quella di far uscire l'album senza alcun riferimento al gruppo: niente titolo, niente nome , solo quattro simboli scelti da ognuno dei componenti a rappresentare se stessi per focalizzare l'attenzione esclusivamente sulla musica. Ma l'immagine scelta era già di per se esplicativa: una foto di un vecchio contadino che trasporta un pesante fascio di legna appesa su un muro decrepito e scrostato di una casa diroccata, mentre in lontananza si stagliano le case ed un grattacielo di una città moderna. Il fatto che la campagna e la terra in generale sia simbolizzata da un quadro, ne da una visione arcaica e mitica che è propria della produzione degli Zeppelin che, tra miti celtici e riferimenti alchemici, propongono una sorta di culto moderno al quale sentirsi legati quasi in maniera esclusiva tramite un linguaggio cifrato da setta segreta. Nessuno saprà mai con certezza cosa i quattro simboli del disco significano, né perchè l'interno della copertina contiene il disegno dell' eremita dei tarocchi sul ciglio di una montagna con una lanterna in mano. Ma il tutto ovviamente ha importanza relativa perchè se da una parte continua a tenere in vita il mito, dall'altra può essere totalmente ignorato dato il livello musicale espresso in IV.
Eh si, perchè praticamente qusi tutte le canzoni presenti nell'album fanno parte del canone Led Zeppelin. Si parte alla grande con "Black Dog", potente ed anche rivelatrice del virtuosismo musicale dei quattro, e si procede verso l'inno di "Rock and Roll" una delle più immediate composizioni degli Zeppelin, dritti al punto senza troppi giri. La prima metà del disco procede con "The Battle of Evermore", canzone folk dai toni epici con riferimenti all'opera di Tolkien, che vede la partecipazione per la prima ed ultima volta di un ospite, l'ex cantante dei Fairport Convention Sandy Danny, per chiudersi con la canzone che è la più conosciuta di tutto il repertorio Zeppeliniano: "Stairway to Heaven". Da molti considerata una delle più grandi canzoni rock di tutti i tempi, "Stairway to Heaven" è la sintesi della sintesi delle due anime degli Zeppelin, essendo costruita su varie parti che vanno dall'intro acustico per poi crescere fino all'esplosione elettrica. La seconda metà dell'album si apre con "Misty Mountain Hop" in cui il basso di John Paul Jones e la chitarra di Jimmy Page vanno all'unisono creando una sorta di calvalcata supportata dalla metronomica batteria di John Bonham che addirittura utilizzera quattro bacchette nella successiva e complicata "Four Sticks". Infine, dopo la pausa acustica di "Going to California" (un omaggio, sembra, a Joni Mitchell) il disco si chiude con quella che è il vero capolavoro dell'album (sebbene meno conosciuta di "Starway to Heaven") "When the Levee Breaks". Qui gli Zeppelin si danno al massimo, a cominciare dalla potente batteria di Bonham (l'intro è stato più volte fatto oggetto di sample, persino dai Beastie Boys), dall'intepretazione magistrale di Plant alla voce ed all'armonica e tutta l'abilità di produttore ed arrangiatore di Jones & Plant, con l'uso di trucchi ed effetti da studio che danno al pezzo quel senso di prorompente minaccia  richiamata dal titolo.
Alla fine la scommessa di Plant e compagni fu di una grande vittoria e di un grande traguardo, dando alle stampe non solo uno dei capolavori del rock, ma anche uno dei dischi più venduto di tutti i tempi. Per tutti gli anni 70, i Led Zeppelin saranno il gruppo da imitare (moltissime volte senza mai riuscirci) e poi il simbolo del gruppo da distruggere secondo l'ideologia punk. Ma, da qualunque parte penda il vostro giudizio, "Led Zeppelin IV"(alla fine si sceglie sempre di chiamarlo così) rimane uno dei dishi più importanti della stoia del rock.
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THE HOLD STEADY - "Heaven Is Whenever"

09:45
Il titolo "Heaven Is Whenever" e quella mano protesa verso l'alto della copertina come in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi, mi hanno fatto pensare ad una svolta quasi religiosa del gruppo newyorkese. Ho temuto per una sorta di conversione  Dylaniana tipo "Saved" ma la cosa che lasciava una speranza che si trattasse di qualcosa di diverso è che qui non c'è la mano di Dio che scende dall'alto, bensi una mano umana che si protende verso l'alto, il che fa una bella differenza. In realtà di religioso c'è ben poco, almeno nel senso del dogma, bensi c'è una compassione ed una voglia di essere vicino ai protagonisti che popolano le storie cantate da Craig Finn, di quei Boys and Girls of America sempre alla ricerca di un senso attraverso le strade della perdizione. Finn, ormai prossimo ai quaranta anni, diventa così l'orecchio capace di ascoltare e di comprendere proprio perchè le storie sono sempre le stesse e da buon fratello maggiore si permette qua e la di dare consigli senza la pretesa di essere saggio. La musica che accompagna questa storie è un solido rock, quasi classico direi, che si affida ai riff di chitarra elettrica molto di più che nei precedenti album data la partenza dal gruppo del tastierista e pianista Franz Nicolay. Non c'è niente di particolarmente avventuroso o nuovo nelle sonorità degli Hold Steady, ma la loro costante crescita nel produrre album moderni dal sapore classico è fatta di  piccoli spostamenti ed aggiustamenti simili a quelli della vita di tutti i giorni dei protagonisti delle loro canzoni.
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BAND OF HORSES - "Infinite Arms"

09:44
Per la loro terza fatica discografica i Band of Horses apportano due significativi cambiamenti: il gruppo si allarga da tre a cinque membri e passano ad una distribuzione con un major, cioè la Columbia Records. Non che ci sia qualcosa di drasticamente diverso rispetto ai due album precedenti, ma il suono si fa decisamente mento "indie" e più profondamente legato alla tradizione musicale americana. "Infinite Arms" è un disco malinconico che contiene soltanto poche tracce in cui c'è un ritmo sostenuto. La grande forza del disco risiede nelle splendide ballate dalle melodie notturne, con la voce di Ben Bridwell in piena evidenza anche se quasi sempre armonizzata. E' decisamente un disco che va ascoltato più di una volta per apprezzarne tutte le sfumature ed assorbirlo completamente, ma se si lascia suonare alla fine riesce a toccare corde profonde. A volte vicino ai Death Cab For Cutie ("Blue Bird") senza dimenticare la lezione melodia ed armonica dei Beach Boys, i Band of Horses hanno costruito il perfetto terzo album, quello che cioè che li mette sulla scia delle loro influenze ma che li caratterizza come entità autonoma ed originale. Basta ascoltare la canzone che da il titolo all'album per lasciarsi andare alla bellezza ed alla malonconia di uno spazio aperto sotto un cielo stellato proprio come nella loro copertina. 

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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

07:45
PRINCE 
"Purple Rain" (1984)

Allora...cercherò di essere conciso ed obiettivo parlandovi di uno dei più grandi artisti che abbia mai cavalcato le scene della musica rock (ecco, già ho perso la sfida!). Pensando e realizzando "Purple Rain", Prince si prepara consapevolmente ad entrare nel mondo delle superstars. L'operazione che conprende l'omonimo film (di cui il disco dovrebbe essere la colonna sonora, facendole avere anche il titolo di più bella colonna sonora mai realizzata) riesce alla perfezione, vendendo, solo negli Stati Uniti, più di dieci milioni di album e scalzando dal primo posto della classifica di Billboard niente meno che "Born in the U.S.A" di Bruce Springsteen rimanendo in vetta per ben ventiquattro settimane consecutive. Tutto questo senza rinunciare alla sua costante ricerca musicale fatta di una fusione di funk, soul,  rock e new wave, aggiungendo però una forte dose pop, tanto quanto basta a rendere appetibile l'album ad un pubblico maggiore che finalmente ne riconoscerà la grandezza.
"Purple Rain" è l'album numero sei di Prince ed il primo che vede l'esordio della sua nuova band "The Revolution". Questo divedere e condividere la composizione dei brani con altri, da all'album un sapore diverso da tutto il lavoro precedente. Mentre cioè fino a "1999" si ha una netta distinzione tra il lavoro di studio ed il live, con "Purple Rain" questa differenza viene quasi del tutto azzerata perchè alcune tracce, compresa quella che da il titolo all'album, sono in realtà pezzi registrati dal vivo.
Ovviamente, l'album non può essere semplicemente considerato una colonna sonora. Sebbene Prince avesse lavorato duramente alla stesura del copione, sottoponendosi anche a lezioni di recitazione, il film non è certo un capolavoro (anche se era dai tempi di "A Hard Day's Night" dei Beatles che un film musicale non otteneva quel tipo di successo commerciale). In sole nove tracce, Prince ed i Revolution riescono a costruire un album talmente coeso, fluido, eterogeneo e stravagante che è impossibile non ascoltarlo dall'inizio alla fine. Una delle intuizioni geniali di Prince si ha in "When Doves Cry", in cui, in fase di missaggio, elimina completamente la traccia del basso e, scegliendolo come singolo, fa una mossa alquanto ardita per un artista di colore. Questa è solo la cosa più evidente di tutte le invenzioni che percorrono il disco. Prince aumenta notevolmente la dose di chitarra elettrica e di assoli (vedi il finale di "Let's Go Crazy" per non parlare di "Purple Rain") aumentando anche la sua fama di strumentista. Anche se i testi rimangono allusivi, mischiando sacro e profano, amore e sesso, è da ricordare come proprio per "Darling Nikki", la moglie dell'allora senatore Al Gore, inizierà una crociata che culminerà con l'applicazione del controverso "Parental Advisory" sticker sulle copertine degli album che contenevano testi espliciti (anche se Prince era stato decisamente più esplicito in precedenza con titoli di canzoni quali "Jack U off", "Head" o "Soft and Wet"). E pensare che questa volta aveva solo descritto una scena in cui incontra la suddetta Nikki nella hall di un'albergo mentre si masturbava leggendo una rivista!
Il disco venne seguito da un tour trionfale, ma anche da quel paragone che Prince ha sempre trovato insopportabile con Michael Jackson come re del pop (e a detta di molti Jackson era molto più ossessionato da Prince che non viceversa). Prince infatti si è sempre considerato un musicista degno di essere paragonato a Miles Davis e John Coltrane, e questa sua arroganza, supportata però da una musicalità straordinaria, lo ha sempre portato a percorrere strade diverse e personali senza badare più di tanto al successo commerciale, conducendolo inevitabilmente verso una carriera che può essere vista sia come una sorta di autodistruzione dettata dall'ego o come l'approdo verso un sublime stato di musicista puro.
Una volta pubblicato "Purple Rain" infatti, Prince non ha mai cercato di replicarlo, ma ne ha utilizzato il potere derivante dall'enorme successo conseguito, per imporre le proprie visioni musicali ad una multinazionale come la Warner, che però si prenderà la sua rivincita quando le vendite cominceranno a calare costringendo Prince a pubblicare album di scarti solo per estinguere i suoi obblighi contrattuali, pagando il prezzo della propria libertà artistica con un enorme calo di popolrità.
Comunque la pensiate sulle stranezze che seguirono (il temporaneo cambio di nome prima con T.A.F.K.A.P. e poi con un impronunciabile simbolo, le performance con la scritta SLAVE sulla guancia, la sua conversione ai testimoni di Geova, l'ossessione verso il frutto del proprio lavoro che lo hanno portato anche a denunciare i fans etc.) nulla può intaccare lo straordinario livello raggiunto da Prince con "Purple Rain", non soltanto sbaragliando tutta la concorrenza delgi anni '80 ma iscrivendo il suo nome nell'albo degli artisti fondamentali che hanno fatto del rock la forma di espressione più originale ed innovativa della seconda metà del ventesimo secolo.
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