Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale

WEEZER - "Hurley"

10:31
Non sono sicuro di quanto i Weezer siano conosciuti e seguiti in Italia, ma certamente sono una delle band piu' importanti della fine degli anni '90 in America. La loro fama si basa sui loro due primi lavori che sono oggi considerati due classici: "Weezer"  del 1994 (meglio conosciuto come The Blue Album, perche' esistono altri due album chiamati cosi' con differenti colori, rispettivamente The Green Album e The Red Album) e "Pinkerton" del 1996. Da allora, la storia dei Weezer e' stata una continua prova a staccarsi dal mito da loro stesso creato, senza pero' essere stati capaci di approdare verso altri lidi altrettanto soddisfacenti. Il ritorno ad una etichetta indipendente deve aver giocato un ruolo non secondario per la realizzazione di "Hurley" in quanto si percepisce un recupero di quell'energia che tutti aspettavano pazientemente da circa un decennio. L'album si apre infatti con la canzone "Memories" in cui  Rivers Cuomo costruisce un compendio di ricordi in cui racconta come era bello essere incoscientemente giovane e fare musica senza essere sottoposto a pressioni. I ricordi ed il passato giocano un ruolo fondamentale in "Hurley", ma il tema non sembra essere la nostalgia, quanto un riappropriarsi della propria storia per cercare gli stimoli ad andare avanti. Nella migliore canzone dell'album (secondo me ovviamente), "Unspoken", Cuomo racconta di questa difficolta, quella cioe' di trovare le motivazioni giuste per andare avanti e difendersi dagli attacchi esterni, e la canzone inizia con un un cantato morbido sotto una basi quasi acustica per finire con un urlo di rabbia su un riff quasi alla Nirvana. Ci sono insomma dei validi motivi per continuare ad ascoltare i Weezer e sperare che possano un giorno rompere quell'incantesimo che gli impedisce da un decennio di risalire ai livelli dei loro esordi. "Hurley" non e' perfetto, e ci sono ancora canzoni che si saltano, ma e' decisamente un passo verso una rinascita che potrebbe essere prossima.
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ROBERT PLANT - "Band of Joy"

07:00
Dopo il clamoroso successo di "Raising Sand" del 2007 insieme ad Alison Krauss, Robert Plant continua la sua esplorazione musicale dentro il ventre della musica del ventesimo secolo (soprattutto quella americana), con la cura di un archeologo capace di riportare alla luce e far splendere brani di un passato remoto e prossimo, grazie ad una poduzione certosina messa a servizio della sua interpretazione perfetta. Affidandosi alle cure  sonore di Buddy Miller ed impiegando musicisti dell'area di Nashville (la capitale del country per intenderci), "Band of Joy" ha una impatto più immediato del suo sofisticato predecessore , ed indipendentemente dal repertorio scelto, l'unità stilistica percorre tutto l'album sia che Plant canti un vecchio gospel ("Satan Your Kingdon Must Come Down") sia che interpreti due brani dei Low tratti dal loro album "The Great Destroyer" del 2005 ("Silver Rider" e "Monkey"). Usando poi il nome della sua band pre-Zeppelin  (Band of Joy per l'appunto),  si ha la netta sensazione che Plant abbia trovato la sua personale strada di espressione musicale, puntando tutto sulle sue doti interpretative piuttosto che su quelle compositive, seppellendo all'apparenza qualsiasi speranza di una reunion con la storica band. Non si tratta, ovviamente, di un abiura. Il paragone infatti, suggerito dallo stesso Plant, accosta "Band of Joy" a "Led Zeppelin III", nella felice convivenza di sonorità acustiche ed elettriche. L'approccio con cui Plant e Miller (con l'aiuto di Patty Griffin ad impreziosire il canto) riescono a far convivere brani che vanno dai Los Lobos ("Angel Dance") a Richard Thompson ("House of Cards) passando per sconosciuti brani r&b ("You Can't Buy My Love") o poemi del diannovesimo secolo ("Even This Shall Pass Away") sono la dimostrazione di come si possa proiettare nel futuro la gloria del passato. Passati i sessant'anni, Robert Plant continua a dettare la propria agenda senza curarsi minimamente di quello che il pubblico vorrebbe e questa prova di indipendenza risulta molto più soddisfacente di una semplice celebrazione di un vecchio mito.
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BLACK MOUNTAIN - "Wilderness Heart"

03:30
La band Canadese dei Black Mountain, giunta al terzo disco dopo l'acclamato "In the Future", ritorna con "Wilderness Heart", un album decisamente diverso dal precedente.  La decade di riferimento rimane sempre quella degli anni '70, ma questa volta i Black Mountain abbandonano ogni influenza psichedelica e progressive per concentrarsi su di una visione diretta e monolitica che racchiude in se elementi della triade sacra dell hard rock: Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath. Nonostante quindi il disco sia meno avventuroso del precedente, è in realtà molto più coraggioso perchè il pericolo in questi casi è sempre quello di sembrare una cover band anche se i pezzi sono originali. In realtà i Black Mountain non solo sono capaci di muoversi con disinvoltura sul solco tracciato dai loro "antenati" musicali, ma lo fanno anche con quel misto di rispetto ed irriverenza capace di evidenziarne i tratti originali. La mistura di hard rock e folk è equilibrata cosi come lo sono l'amalgama della voce maschile e femminile rispettivamente di Stephen McBean ed Amber Webber  dando a quest'ultima una maggiore visibilità. Indubbiamente riuscito sotto l'aspetto compositivo, l'album ha i suoi momenti migliori nelle canzoni acustiche rispetto a quelle elettriche, soprattutto nel brano d'apertura "The Hair Song" e "The Way to Gone". La sensazione generale comunque è che sebbene i Black Mountain stiano evolvendo in qualcosa di importante restano ancora troppo legati al bozzolo sicuro che li contiene. Un gran bel disco da ascoltare quindi, ma difficile da amare.


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OF MONTREAL - "False Priest"

04:15
Sebbene abbia sentito gli Of Montreal per la prima volta nel 2007 con l'uscita di "Hissing Fauna, Are You the Destroyer?", sono immediatamente caduto sotto l'incantesimo di Kevin Barnes. Il mondo sonoro degli Of Montreal è un incontenibile orgia sonora nel qule si fondono tanti di quegli elementi eterogenei da creare qualcosa di assolutamente originale. Muovendosi come un collettivo che ricorda i colori esagerati dei Parliament/Funkadelic, l'androgina bellezza del Bowie Ziggy e Aladin Sane, la new Wave anni '80 ed il Prince trasgressivo e sessuale, Kevin Barnes non ha paura dell'esagerazione, anzi ne fa un motivo estetico fondamentale del suo lavoro. Ma c'è una linea sottile che divide il confine tra un sublime incontro di colori musicali cosi diversi e un gran pasticcio senza capo ne coda. Quindi è con grande sollievo che, ascoltando "False Priest" si capisce che ci muoviamo decisamente nel campo della prima ipotesi. Evidentemente Barnes ha fatto proprie le critiche mosse al suo lavoro precedente "Skeletal Lamping", in cui molti avevano la sensazione di trovarsi di fronte ad un disco frammentario e pretensioso con sprazzi di genialità che aveva probabilmente bisogno di un produttore capace di dire alcuni no. La presenza di Jon Brion (produttore tra l'altro di Kanye West) quindi diventa essenziale in "False Priest" portando quell'esperienza e quella professionalità  che rende le visioni musicali di Barnes lucide ed accessibili nella loro follia. Quindi mentre si comincia in pieno stile Of Montreal con "I Feel Ya Strutter" durante il disco ci si imbatte nella fantastica "Coquet Coquette" che sembra suonata dai Muse in pieno trip lisergico, o in "Famine Affair" che invece "sfida" gli Strokes anche nel modo di cantare e nel testo. La presenza di Janelle Monae e Solange Knowles rispettivamente in "Enemy Gene" e "Sex Karma" rinforzano lo spostamento verso territori R&B  mai prima cosi evidenti e lascia capire quanto Barnes sia in grado di giocare e piegare i generi a suo piacimento, facendo apparire gruppi come Scissor Sisters o anche MGMT degli innocui scolaretti con tanto ancora da imparare. Non so se "False Priest" riuscirà a spostare "Hissing Fauna" dal mio cuore, probabilmente no ma certamente  balza direttamente ai vertici dei migliori albums usciti quest'anno.
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THE THERMALS - "Personal Life"

04:40
Giunti al quinto album della loro carriera, i Thermals concentrano la loro attenzione sulle relazioni amorose con lo stesso zelo con cui avevano esplorato i temi politici e religiosi in "The Body, the Blood, the Machine". Tra quell'album e "Personal Life" c'era di mezzo "Now We Can See" che segnava decisamente un abbandono dell'estetica indie lo-fi per un suono più professionale e curato. "Personal Life" continua in quella direzione ma stavolta la foto è decisamente più a fuoco della precedente. E' sempre curioso vedere dove l'energia e l'esigenza espressiva primitiva di una band giovane si incanala mano a mano che aumentano i dischi e gli anni. Esplorare quindi i sentimenti e l'amore inteso come relazione di coppia, sembra un tema da grandi e una cosa molto più difficile da fare. I Thermals affrontano l'argomento in modo semplice e diretto, con titoli che sono quasi un compendio delle frasi più dette in una storia tra due persone. Ma è significativo che l'album si apre con "I Am Gonna Change Your Life" e si chiude con "You Changed My Life". Piuttosto che essere un viaggio in cui l'amore si logora dopo l'entusiasmo iniziale è un viaggio in cui l'amore si scopre passo dopo passo, resistenza dopo resistenza. E' nel piccolo intermezzo di "Alone, a Fool", in cui Harris canta "Quando ti ho vicino sono solo" nella prima strofa e "Quando sono solo e tu sei con qualcun'altro sono uno stupido" nella seconda, che si racchiude tutto il succo del disco.  Lo spostamento dall' "io" al "tu" al "noi", sembra a tutti gli effetti molto sincero cosi come lo è la musica che lo accompagna, priva di fronzoli e diretta, per raccontare l'ennesima variazione su uno dei temi più sviscerato in assoluto. I Thermals lo fanno senza paura e riescono nell'impresa. Sebbene non sia un capolavoro, "Personal Life" mostra un gruppo in movimento pronto anche ad affrontare temi da grandi, senza apparire invecchiati.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

11:52
LUCIO BATTISTI
"Anima Latina" (1974)

Nel 1974, Lucio Battisti si trova in una posizione invidiabile rispetto a tutto il panorama della musica italiana. Il suo lavoro fino a quel momento è stato costellato da un successo dietro l'altro, con albums e singoli che sono entrati nell'immaginario collettivo. Tanto spontaneo nella composizione, quanto meticoloso nella realizzazione  in studio, Battisti ha trasformato il gusto musicale degli italiani riuscendo nell'impresa titanica di rendere accessibile a tutti (anche a quelli che lo criticavano in nome di un impegno politico e sociale mancante) un modo di concepire il pop come tradizione e sperimentazione. Chi comprava i suoi dischi si trovava immancabilmente di fronte a pezzi dall'impatto immediato vicine a cose dal sapore decisamente straniante. Da "Amore e non Amore" in poi (l'album che contiene canzoni cantate dal titolo corto e pezzi strumentali dal titolo lunghissimo) queste due anime hanno viaggiato parallelamente. Quello che rende "Anima Latina" un disco speciale, è proprio la fusione di questi due mondi in qualcosa di assolutamente unico in tutta la sua produzione. In "Anima Latina" non c'è nessun classico battistiano (di quelli che riempiono le compilation per intenderci) eppure è proprio qui che  Battisti e Mogol raggiungono un intesa perfetta.
Battisti trova ispirazione di ritorno da un viaggio con Mogol in Sudamerica, in cui i due visitano il Brasile e l'Argentina. Tutti gli stimoli accumulati durante il viaggio da l'occasione a Battisti di svincolarsi dalla concorrenza dei cosidetti "cantautori sentimentali" quali Baglioni o Cocciante che cominciavano a mietere successi seguendo le sue orme, spostandosi su un territorio più vicino al progressive della PFM, Banco o Orme senza però abbracciarne completamente la filosofia musicale. Se infatti la struttura dell'album può far pensare ad un concept (con brani che hanno una struttura svincolata dalla canzone classica e legate da intermezzi che riprendono le melodie delle canzoni principali), la musica e le liriche dell'album hanno poco a che fare con il progressive, cosi come poco ricordano le musiche dei paesi ai quali si ispira. Quello che viene fuori da questo intreccio di antico e moderno, acustico ed elettronico è un disco complesso e  mai complicato. Sin dalle note d'apertura di "Abbacciala, Abbracciali, Abbracciati" si capisce che qualcosa è cambiato. La voce messa così poco in risalto richiede uno sforzo maggiore nel comprendere i testi (che sono i migliori che Mogol ha scritto) mentre la musica diventa la vera protagonista. "Abbracciala" sembra un brano che ha l'atmosfera di un risveglio che ci porta verso "Due Mondi", l'unico brano che ha un sapore vagamente sudamericano, cantato in coppia con Mara Cubeddu. Con "Anonimo" però le cose prendono una piega diversa, con un brano che supera i sette minuti e che con i suoi cambi di atmosfera è il brano più complesso dell'album insieme a "Macchina del tempo" che virtualmente lo chiude. Ma c'è spazio anche per un ironica autocitazione de "I Giardini di Marzo"  suonata come una marcetta per banda, quasi a prendere le distanze dal proprio mito per ribadire che come artista, Battisti era sempre più avanti del suo stesso pubblico. Nel disco trovano ancora spazio momenti più vicini al Battisti classico come ne "Il Salame" ma anche ad un monumentale brano quale è la traccia che da il titolo all'album, vero e proprio capolavoro musicale e lirico.
Dopo "Anima Latina", Battisti  continuerà la sua lunga cavalcata di successi per tutti gli anni 70, ma non sarà mai più  in grado di essere così tradizionale e sperimentale come in questo album. Quando deciderà di averne abbastanza, farà a pezzi il proprio mito con quattro album dell'era Panella che punteranno decisamente alla sperimentazione avulsa da qualsiasi tradizione melodica italiana. "Anima Latina" rimane quindi un pezzo unico, non solo nella discografia di Battisti, ma anche nell'intero panorama della musica popolare italiana. Rimane sempre il dubbio di quale sarebbe stata l'importanza di Battisti se non fosse stato limitato dal fatto di essere italiano.  A me piace pensare, almeno per una volta, che sono gli altri che si sono persi qualcosa.
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INTERPOL - "Interpol"

09:15
Gli Interpol in questi anni sono stati un gruppo frustrante. Dopo il loro fulminante esordio del 2002 "Turn On the Bright Lights", cha ha contribuito non poco a rimettere New York City al centro della musica rock indipendente, hanno dato alle stampe altri due album che lasciavano presagire la classia parabola discendente di un gruppo che non aveva saputo evolversi. Non che non c'era un evoluzione, ma sembrava più una ricerca verso un equilibrio che potesse allargare le fortune del gruppo conuigando la loro parte decisamente angosciante, con strizzate d'occhio verso una pulizia sonora che puntava alla classifica. Il risultato è stato quello di creare un suono decisamente unico ma poco soddisfacente soprattutto in "Our Love to Admire". Questo disco quindi non godeva dell'attesa che in genere viene riservata a gruppi di tale importanza, almeno non da parte mia. La cosa che faceva ben sperare era un ritorno alla Matador. La speranza che il ritorno ad un etichetta indipendente potesse significare un ritorno ad un suono più autentico è parzialmente riuscito ma "Interpol" sembra più un disco interlocutorio per qualcosa che deve ancora avvenire. Significativo il fatto che il disco non contenga nessun brano che potenzialmente potrebbe essere un singolo. I pezzi che lo compongono  sono costruiti su ripetizioni ed insistenze che sembrano sempre fermarsi un attimo prima di partire, anche in quelli migliori che, forse non a caso, si trovano tutti nella seconda metà del disco (vedi "Try It On", "Always Malaise" e la conclusiva "The Undoing"). Ma se da una parte la frustrazione rimane, qui è di tutt'altra natura. C'è la sensazione infatti che il gruppo abbia in qualche modo ricominciato ad evolversi e quindi "Interpol" sembra la premessa ad un discorso musicale che però, almeno in questo disco, non arriva. Ma si è almeno riaccesa la curiosità di vedere e capire dove gli Interpol si muoveranno anche alla luce dell'uscita dal gruppo del bassista Carlos Dengler dando per scontato che un altro disco a nome Interpol ci sia in futuro.
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MAGIC KIDS - "Memphis"

02:40
Sarebbe troppo facile liquidare i Magic Kids come la versione 2010 dei Beach Boys. Indubbiamente il paragone viene subito alla mente, ma se dovessimo basare il giudizio a secondo delle influenze, quanti gruppi potrebbero salvarsi? Quello che a mio avviso ci regalano questi ragazzi, è un piccolo capolavoro pop. Le undici canzoni che formano "Memphis" hanno non solo il pregio di essere concise da superare raramente i famosi tre minuti, ma quello che succede in quei tre minuti è un esplosione di creatività messa a servizio della canzone senza una sola nota in più. Tanto più si ascolta il disco, tanto pù ci si dimentica della prima impressione e l'orizzonte si allarga. Il campo delle influenze passa in secondo quando ci si lascia prendere dalla magia che i ragazzi sono stati in grado di mostrare. "Memphis" è come quel piatto che ci piace e che dopo averlo assaggiato si vuole scoprire di quali ingredienti è fatto e più  si sposta l'attenzione dall'ingrediente principale più si apprezza la maestria con il quale sono state messe insieme tutte le parti. L'intervento dell'orchestra, il coro di bambini, i cambi armonici con accordi sorprendenti, gli spazi che ogni tanto si aprono all'interno di pezzi riducendo tutto ad un solo strumento, sono solo alcune delle cose che descrivono "Memphis". Difficile è decidere dove l'album raggiunge il suo apice, ma di tutte le canzoni quella che preferisco è senza dubbio "Summer", con la sua splendida melodia, ed un arrangiamento perfetto anche nella sua coda in stile samba. Se queste sono le premesse ed il biglietto da visita con cui i Magic Kids si presentano sulla scena non è difficle aspettarsi un capolavoro da qui a qualche anno.
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JOHN MELLENCAMP - "No Better than This"

03:16
C'è un aspetto estetico che circonda il nuovo album di John Mellencamp che risulta tanto importante quanto le 13 canzoni che compongono l'album. Quello che era nelle sue intenzioni (ed in quelle del suo partner T-Bone Burnett) era quello di ricreare l'atmosfera dei dischi come si facevano prima o durante l'avvento del rock'n'roll. In una sorta di rifiuto totale della modernità, quindi, il disco è stato registrato con un solo microfono intorno al quale hanno suonato tutti i musicisti, e con apparecchiature degli anni 50. Il disco quindi è in mono. Non contento di ciò, ad aggiungere un aura sacra sono i luoghi in cui Mellencamp ha deciso di registrare questi pezzi che comprendono i leggendari Sun Studios di Memphis (quelli dove hanno registrato Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis, Carl Perkins, Roy Orbison etc), la First African Baptist Church e, come ciliegina sulla torta, la stanza 414 del Gunter Hotel di San Antonio, la stanza cioè in cui ha inciso proprio il grande Robert Johnson. Tutto questo sarebbe già stato sufficiente a far parlare dell'album, se non fosse che Mellencamp sembra aver assorbito da quei posti un ispirazione genuina che lo ha portato a pubblicare uno dei suoi album più belli. L'album è avvolgente come una coperta calda in una notte d'inverno, e sin dalle prime note di "Save Some Time to Dream" si capisce che saremo testimoni di un passato che seppur archiviato, parla ancora con voce forte ed originale. Il folk, il rockabilly, le venature blueseggianti, sono ancora presenti in molti gruppi moderni, ma in questo disco così diretto, ci ricordano la vera funzione della musica popolare, quella cioè di raccontare la vita così com'è, così come la vivono tutti e che quindi tutti possono capire. Meglio di così, insomma, proprio non si poteva.
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ISOBEL CAPBELL & MARK LANEGAN - "Hawk"

04:00
Giunti alla pubblicazione del loro terzo album insieme, la collaborazione della ex vocalist dei Belle & Sebastian e dell'ex Screaming Trees Mark Lanegan, non sembra più strana. Per chi ha seguito la coppia nei due dischi precedenti ("Ballad of Broken Seas" del 2006 e "Sunday at Devil Dirt" del 2008) è un gradito ritorno ed un ulteriore conferma delle loro qualità artistiche. Le voci dei due protagonisti si fondono insieme come due estremi che si toccano, ed a farla da padrona è ancora quella atmosfera da bar notturno  con Campbell & Lanegan su un palco a cantare per i pochi avventori del locale intenti a bere ed a lasciarsi accompagnare da quelle note. Sebbene per questo disco Mark Lanegan non compare in un nessun pezzo come autore, la sua voce diventa preziosa soprattutto nelle interpretazioni di due pezzi di Townes Van Zandt "Snake Song" e soprattutto nella toccante "No Place to Fall". In tutto questo non mancano due belle incursioni nel rock blues corposo con "Get Behind me" e soprattutto con la title track, particolare perchè strumentale, denotando un certo coraggio per un album di un duo che fa del contrasto delle voci la loro forza. Passata la novità, quindi, resta la certezza che la coppia ancora trova stimoli per lavorare insieme e regalarci il motivo per spegnere la radio ed accendere il cuore.
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DARKER MY LOVE - "Alive As You Are"

07:30
Appena inizia l'arpeggio di chitarra e poi le voci armonizzate di "Backseat", il brano di apertura del nuovo album dei Darker My Love, si ha quasi l'impressione che all'nterno della custodia sia finito il disco sbagliato, una specie di difetto di fabbrica. Tale è il cambio di direzione preso dal gruppo californiano di Los Angeles, con due album alle spalle di rock pieno di chitarre effettate che li avvicinavano più ai My Bloody Valentine. "Alive as You Are" è tutto un altro affare. Non sarà certo un caso che per registrare questo disco i Darker si siano lasciati alle spalle le spiagge losangeline per approdare nella capitale storica della psichedelia, San Francisco. Quello che ne viene fuori è un salto in un passato glorioso che unisce l'influenza di gruppi che hanno fatto della California la meta ideale per molti gruppi dalla metà degli anni 60. Così aleggiano dietro le spalle dei Darker, le ombre giganti di CS&N, dei Byrds, dei Grateful Dead e quindi, di conseguenza, anche dei Beatles. Immagino che tutto questo può avere un duplice effetto su chi ascolta: dopo lo straneamento per il sorprendente cambio di direzione, si può rifiutare come una voglia di cercare un qualche riscontro commerciale, o abbracciare nel senso di una rivelazione di  autenticità del gruppo prima celata dietro un muri di effetti. Quello che è certo è che le canzoni sono tutte ben strutturate e funzionano benissimo nel creare quella sensazione familiare e nuova allo stesso tempo. "Alive as You Are" è quindi alla fine un disco che più che "dire" qualcosa, ribadisce un concetto già conosciuto, cioè che il rock semplice e diretto ha sempre fatto una lunga strada perchè quando si arriva alla testa attraverso il cuore, le cose restano.
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BENTORNATI!

06:44
Allora...sono finite le vacanze, si ritorna al lavoro (chi ce l'ha), e si puliscono le orecchie dalle musichette che hanno accompagnato i nostri bagordi estivi. Io sinceramente non ho nessun motivetto da appiccicare a quest'estate. Ricorderò il 2010 probabilmente come l'anno in cui ho iniziato a scrivere questo blog e quindi a scoprire e conoscere nuovi artisti e gruppi che, aggiunti alla lista di quelli che conoscevo già, mi danno l'idea di quanto sono ignorante. In questi quattro mesi che ci dividono dalla fine dell'anno tanta altra musica uscirà, ed io spero di apportare quelle modifiche al blog che ho pensato sin dalla sua creazione, soprattutto perchè spero vivissimamente di continuare a sriverlo da New York e non più da Roma.
Spero di andare a vedere tanti concerti, di fare belle foto, e di scrivere articoli anche sul Mucchio Selvaggio, probabilmente l'unica rivista musicale italiana decente che ancora esiste (il mio primo articolo sui Morning Benders lo potete trovare sul mucchio.it alla sezione "in primo piano"). Per il momento mi limito ancora a recensire cose che ritengo interessanti ed album del passato che sono importanti. Continuate a seguirmi e spero comincerete ad essere più interattivi di quanto non lo siate stati fin ora.
Comunque vi ringarzio tutti per il sostegno.
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