Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale

RON SEXSMITH - "Long Player Late Bloomer"

05:11
Il canadese Ron Sexsmith e' uno di quegli artisti che, nonostante una naturale inclinazione a scrivere splendide melodie che lo hanno portato ad annoverare tra i suoi ammiratori gente del calibro di Paul McCartney ed Elvis Costello, non ha mai trovato la chiave per raggiungere il "successo" di vendite che meriterebbe. Raggiunti i vent'anni di carriera (almeno dalla pubblicazione del primo album) non credo che questo sia piu' nei suoi obiettivi. Quello che poteva succedere con "Cobblestone Runway" nel 2002 non e' successo ma a giudicare da "Long Player Late Bloomer" non sembra essere un problema. Sin dalle prime note di "Get in Line", si capisce che siamo di fronte ad un album costruito per entrare nella testa immediatamente. E' una melodia che si canta e si ricorda dopo il primo ascolto, cosi' come le successive "The Reason Why" e  "Believe It When I See It". Lo sforzo di "Long Player Late Bloomer" di apparire semplice risiede pienamente nella produzione brillante dei brani, che non e' mai sopra le righe ma che veste le canzoni perfettamente rivelandone la complessita' nei seguenti ascolti. Ogni volta che lo si ascolta, infatti, l'attenzione si sposta di brano in brano ed ogni volta si ha una canzone preferita diversa. Anche se non ci sono brani riempitivi, certamente ci sono pezzi che brillano piu' di altri. I quattro pezzi finali, (le beatlesiane "Every Time I Follow" e "Love Shine" , le tinte gospel di "Eye Candy", e la ballata conclusiva "Nowadays") chiudono il disco in maniera ancora piu' incisiva di quelle di apertura, confezionando un album di pop sopraffino come e' difficile ascoltare di frequente. Probabilmente Ron Sexsmith non godra' mai del successo dei suoi famosi ammiratori (vedi sopra), ma certamente, almeno in parte, spero che essere menzionato in un blog italiano gli porti almeno un po piu' di notorieta' perche' decisamente se la merita tutta.
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CUT COPY - "Zonoscope"

16:18
La band australiana dei Cut Copy usa la musica elettronica con lo stesso principio con sui viene usata da LCD Soundsystem. L'approccio cioe' e' quello  di una rock band. Dopo il brillante "In Ghost Colours" del 2008, il nuovo album mantiene alto il livello della band consegnandoci un disco buono da ballare e da ascoltare (e se volete, potete anche farlo contemporaneamente!). Anche se la formula non si distacca notevolmente dal lavoro precedente, "Zonoscope" e' decisamente un album piu' "leggero" anche se ancora una volta, abbastanza vario da far venire in mente rispettivamente i Talking Heads, i New Order, I Depeche Mode e a volte Frankie Goes to Hollywood. Il disco sembra essere concepito come un vecchio LP in due parti distinte divise da "Strange Nostalgia for the Future", il brano piu' corto dell'album che funge da cerniera tra la parte piu' dance e quella piu' rock. Forse questa divisione e' casuale ma decisamente sembra che ascoltando il disco si parte da un punto e si arriva da tutta un altra parte. Se si ascolta "Need You Now" e  "This Is All We Got", (quelle che cioe' potrebbero essere le canzoni d'apertura delle due facciate), si puo' apprezzare la versatilita' dei Cut Copy e lo spettro sonoro entro il quale si muovono che copre l'intero arco dalla pop/dance alla New Wave. Ora che sembra che LCD Soundsystem abbia intenzione di ritirarsi della musica, i Cut Copy rimangono la punta di diamante del genere, anche se difficilmente potranno spingersi oltre.
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BROWN RECLUSE - "Evening Tapestry"

17:52
L'esordio della band di Philadelphia, dopo un promettente ep uscito ben due anni fa,  mette in evidenza come molte giovani band puntano dritto al recupero delle sonorita' degl anni '60 ed a coloro che le hanno mantenute in vita  nei decenni successivi. "Evening Tapestry" e' un piccolo gioiello di pop psichedelico che si avvicina, per sfumature, melodie ed arrangiamenti, non ai soliti mostri sacri quali i Beatles o i Beach Boys, bensi a bands meno osannate quali gli Zombies o The Left Banke. I due anni trascorsi a costruire l'album d'esordio evidentemente sono serviti ai Brown Recluse a lavorare agli arrangiamenti che sono la vera forza di queste canzoni assolutamente semplci. La brevita' dell'album (appena poco oltre i 30 minuti con 11 canzoni), ne fa un altro elemento di forza in quanto invita al riascolto varie volte  gustandone di volta in volta le piacevoli invenzioni sonore. Dall'apertura di "Hobble to your Tomb", fino alla conclusiva "March to your Tomb" si fa un piccolo viaggio in un mondo sonoro solare, antico e moderno in una tessitura fatta di tastiere, chitarre acustiche e soprattutte melodie che rivaleggiano con le loro influenze . Mentre a volte si fa fatica a non pensare a Belle & Sebastian o al collettivo della scuderia Elephant 6 (Apples in Stereo, Of Montreal pre elettronica o Ladybug Transistor), chiunque ami il Pop non puo' farsi sfuggire questo esordio e farebbe bene a tenere d'occhio i Brown Recluse.
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YUCK - "Yuck"

09:20
Quando una giovane band esordisce, e' difficile non fare paragoni e cercare le influenze che ne caratterizzano le sonorita'. A volte risulta complicato, o perlomeno soggettivo, ma nel caso degli Yuck, la giovane band inglese, risulta piuttosto semplice, anche perche' gli stessi protagonisti ne parlano. Gli Yuck aggiornano il canone rock della fine degli anni '80 e anni '90, prendendo la lezione dei Dinosaur JR, My Bloody Valentine, Pavement e un pizzico di Pixies per aggiornarla e portarla di nuovo in voga in questa seconda decade del nuovo millennio. Il fatto che l'album sia cosi' palesemente derivativo, non ne diminuisce affatto il valore, perche' si tratta di omaggio nato esclusivamente dall'ammirazione di questi gruppi, non una semplice copia. Gli Yuck, costruiscono un album che e' estremamente bilanciato da momenti rock ("Get Away", "The Wall", "Holing Out", "Operation") a ballate piu' o meno acustiche ("Shook Down", "Suicide Policeman", "Suck"),  dimostrando come abbiamo imparato la lezione interamente.  Le canzoni che compongono "Yuck" sono estrememente piacevoli, melodicamente accattivanti e piene di una energia giovanile che ne costituisce sicuramente una base solida sul quale costruire un brillante futuro. Quando sono di nuovo le chitarre elettriche a parlare, c'e' sempre la speranza che non tutto e' perduto.
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BRIGHT EYES - "The People's Key"

08:27
A quanto pare, "The People's Key" sara' l'ultimo album dei Bright Eyes. Anche se nella storia del rock abbiamo sentito frasi di questo genere essere pronunciate e poi smentite dai fatti, c'e' sempre la possibilita' che sia del tutto vero. Il dubbio resta pero' in quanto dal precedente album "Cassadaga"del 2007, Conor Oberst ha pubblicato un album  a proprio nome ("Conor Oberst" 2008) ed un altro ("Outer South" 2009) denominato Conor Oberst and The Mystic Valley Band. Il percorso di allontanamento dalla creatura che lo ha visto arrivare sulle scene giovanissimo (18 anni quando il primo album e' uscito nel 1998) era quindi gia' cominciato ma evidentemente c'era qualcosa di irrisolto. Se "The People's Key" sara' l'ultimo album a nome Bright Eyes, l'addio e' ottimo. Quello che appare evidente dall'ascolto del disco e' la sua natura celebratoria, in quanto contiene tutti gli elementi che hanno fin qui caratterizzato la musica prodotta dal gruppo. Dall'introduzione parlata, al folk rock, all'impiego di abbellimenti elettronici, "The People's Key"e' un album che vede Oberst approfondire la sua ricerca personale  della propria condizione di essere umano, senza trovare risposte definitive. E' un album in cui la spiritualita' gioca un ruolo fondamentale, dove le varie esperienze si mescolano in una sorta di umanesimo che prende spunto da tutto senza trasformarsi mai in una verita' assoluta. Se in "Shell Games" Oberst canta "La mia vita privata e' un insito scherzo che nessuno mi ha spiegato", e "Sono ancora arrabbiato senza piu' un motivo per esserlo", e' in "Triple Spiral" che si trova la risposta nel verso "Questo e' il problema/ un cielo vuoto/  ed io lo riempio con tutto quello che manca alla mia vita." Questa e' la risposta piu' vicina alla verita', un risposta cioe' che contiene una marea di dubbi ma che sposta il divino nell'uomo. Insomma, "The People's Key" e' la fine e l'inizio, una risposta ed una domanda, gioia e tristezza, un epilogo ed un prologo di un artista cresciuto in pubblico che cerca di trovare un posto per se' mentre scopre di appartenere agli altri.
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P. J. HARVEY - "Let England Shake"

22:22
Sono passati quasi venti anni da quando il mondo musicale ha conosciuto l'urlo primordiale dello spirito libero di Polly Jean Harvey ed in questi venti anni non c'e' mai stata una caduta di stile, bensi' ottimi albums ed almeno un paio di capolavori. Ora PJ Harvey ritorna con un disco ancora una volta diverso, soprattutto dall'estremamemte intimo ed a volte impenetrabile "White Chalk". Ma "Let England Shake" e' un disco diverso da tutta la sua discografia per una ragione molto semplice: Harvey qui esplora un soggetto altro da se stesso e facendo cio', si espone ancora di piu' rivelando una natura "politica' che fino ad ora aveva evitato. "Let England Shake" e' un disco che parla di guerra, di soldati che diventano carni da macello, di paesaggi desolati, di una incombente sensazione di morte, insomma di uno stato delle cose non proprio allegro. PJ Harvey diventa la narratrice di una quotidianita' straordinaria, usando la sua musica e le sue liriche per raccontare il mondo. Lo fa con il distacco dovuto quando si racconta una storia altrui, ma anche con una compassione ed una comprensione che sono degne della migliore letteratura. Per questo disco, le parole sono venute prima della musica, ma e' difficile capirlo se non lo si apprende. I bozzetti lirici ed il cantato della Harvey scoprono qui nuovi territori, cosi come la musica che si apre a strumenti mai apparsi prima nei suoi lavori (vedi l'uso dei sassofoni). Grazie all' ormai collaboratore essenziale John Parish ed alla coproduzione di Flood, "Let England Shake" si aggiunge ad una ormai lunga lista di dischi importanti che hanno dato al rock un lustro artistico paragonabile a qualsiasi altra arte. "Let England Shake" e' sicuramente un disco "importante", uno di quelli che rimarra' come punto di riferimento nella storia personale di P.J. Harvey e piu' in generale nella storia contemporeanea, aiutandoci se non a comprenderla almeno a tollerarla.
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RADIOHEAD - "The King of Limbs"

15:51
La sorprendente uscita del nuovo album dei Radiohead,  "The King of Limbs", suscita alcune riflessioni su quella che probabilmente e' la migliore band degli ultimi venti anni di rock. Personalmente considero "Ok Computer" il loro capolavoro e, nonostante riconosca il valore dei "Kid A", ho faticato non poco a tenere il passo con i lavori seguenti. Quello che rende "Ok Computer" cosi' affascinante e', a mio avviso, la presenza di canzoni straordinarie che sebbene siano avvolte da una tessitura  sonora moderna, ancora mantengono una struttura riconoscibile con la quale relazionarsi a livello emotivo. Quello che avviene da "Kid A" in poi (sempre secondo me), lascia molto meno spazio all'emozione in favore di una sperimentazione intellettuale che a volte ha i tratti della genialita' ed a volte quella di una noiosa e autocelebratoria masturbazione. Adorati e venerati dalla critica ( tanto che ogni loro album sembra un evento straordinario), I Radiohead hanno creato un eccellente catalogo, originale ed unico, che ha rischiato pero' di atrofizzarli. L'uscita di "In Rainbows" quattro anni fa, ha segnato un ritorno ad una struttura piu' lineare senza rinunciare alla sperimentazione. "In Rainbows" e' un disco che si ascolta con la piacevole sensazione che la bellezza avviene sotto i nostri occhi. Al di la' del calmore suscitato dalla pubblicazione digitale e del "pagate quanto volete", "In Rainbows" si colloca ai vertici della loro carriera, poco al di sotto di "Ok Computer". Detto tutto cio', che cosa dire di "The King of Limbs"? La prima impressione e' che non aggiunge ne toglie assolutamente nulla al valore della band, ma il sospetto e' che i Radiohead abbiamo ormai raggiunto una zona confortevole dal quale si spostano solo leggermente senza rischiare. Non che questo sia necesariamente un aspetto negativo ma semplicemente significa che non c'e' nessun sussulto tra le note di "The King of Limbs", soltanto un buon disco con una sufficiente dose di creativita' che e' insita nella storia della band. Ma e' nella naturale evoluzione di qualsiasi artista degno di nota giocare sul sicuro e "The King of Limbs" e' pienamente nel canone Radiohead, capace di farsi amare dagli adoranti fans e dai critici.
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SMITH WESTERN - Dye It Blonde"

19:59
Gli Smith Western sono un giovanissimo trio di Chicago innamorati del garage rock e del glam. Dopo un esordio promettente nel 2009 ed un singolo in condivisione con i Magic Kids nel 2010, il nuovo lavoro "Dye It Blonde" mostra un deciso balzo in avanti in termini di qualita' sonora.  Mentre nell'esordio si ha come la sensazione che Marc Bolan abbia registrato un nuovo album nella tomba, qui si passa direttamente in serie A, quasi che David Bowie abbia preso in mano la produzione e messo a disposizione un grosso budget. Infatti si possono piacevolmente ascoltare tantissimi riferimenti sia ai T.Rex che ai Mott The Hoople soprattutto nei pezzi piu veloci come nel brano d'apertura "Weekend" o nella frase chitarrristica di "Still New". Ma tutto l'album e' un piacevole ascolto, seppure, per quelli come me un po' in la con gli anni, ha un gusto familiare che a volte sfocia nel gia' sentito. Nonostante cio', gli Smith Western si propongono con "Dye It Blonde" di fare il grande salto nel mainstreem, abbandonando le sonorita' fatte in casa ed adottando lo studio e la produzione  (di Chris Coady) come elementi essenziali dell'esperienza musicale. E' una promessa che adesso devono mantere e data la loro giovane eta' e la musica che li inspira, c'e' da scommettere che resteranno in circolazione a lungo e forse saranno in grado di sganciarsi dalle loro influenze per creare qualcosa di piu' originale.
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IRON & WINE - "Kiss Each Other Clean"

08:15
Saltato a piedi pari il mese di febbraio (un mese freddissimo qui a New York, con tempeste di neve) eccomi di ritorno a deliziarvi con le proposte di nuovi album da ascoltare.
Il nuovo album di Sam Bean, meglio conosciuto come Iron & Wine, conferma come la sua evoluzione musicale sia ormai ben lontana dalle ballate folk degli esordi. Raggiungendo uno status da "superstar' nel mondo della musica indipendente, Iron & Wine ha saputo scegliere dove rivolgere la sua attenzione musicale creando di volta in volta un approccio sempre piu' sofisticato senza perdere una briciola del suo fascino di narratore. "Kiss Each Other Clean" e' probabilmente il suo album piu' complesso ma anche quello piu' ricco, in cui strati di strumenti ed arrangiamenti e stili si fondono in una piacevole esperienza sonora. L'iniziale "Walking Far From Home" e' un piccolo gioiello di arrangiamento in quanto la struttura della canzone non prevede nessun ritornello, eppure e' costruita con un crescendo che si arricchisce di strofa in strofa. Ma e' con "Me and Lazarus", "Monkey Uptown" , "Rabbit Will Run" e " Big Burned Hand" che Beam disegna i capisaldi di "Kiss Each Other Clean" con sonorita' che sfiorano un sofisticato funk per sfociare (come nella coda di "Rabbit Will Run") nel Jazz. La cosa straordinaria e' che la base  sulla quale Beam costruiscei il suo universo sonoro non e' cambiata di molto, per cui se siete dei vecchi fans ammirerete la crescita musicale, se invece questo e' il primo album che ascoltate sara' un po piu' complicato fare il percorso inverso. La cosa sicura e' che "Kiss Each Other Clean" si candida gia' da adesso ad essere uno dei migliori albums del 2011.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

11:45
PETER GABRIEL
"So" - (1986)

Quando nel 1976 Peter Gabriel annuncia il suo distacco dai Genesis alla fine del tour di "The Lamb Lies Down on Broadway" per dedicarsi alla vita familiare e stare vicino alla sua primogenita Anna (non proprio in salute), l'interrogativo principale e' se il gruppo potra' continuare ad avere successo senza di lui, mentre di quello che fara' Gabriel, non si intravede un granche'.
I Genesis avranno un enorme successo negli anni '80, ma decisamente la loro musica sara' ininfluente se comparata alla ricerca artistica e musicale del loro vecchio compagno.
Ci vuole un po di tempo prima che Gabriel chiarisca la sua visione musicale e la direzione che vuole intraprendere. La sua attenzione si sposta verso l'innovazione tecnologica apportata dall'uso del campionatore che negli anni '80 spostera'  momentaneamente il suono del rock  lontano dalla chitarra elettrica (con risultati non sempre edificanti!).
Fino all'uscita di "So", Gabriel pubblica 4 album caparbiamente intitolati semplicemente con il suo nome, (cosa che fara' impazzire gli americani i quali daranno agli album dei soprannomi per distiguerli uno dall'altro, rispettivamente "Car", "Scratch", "Melt" e "Security") ma la vera svolta si ha nel 1980 con il terzo album della serie, in cui Gabriel getta le basi della sua idea di musica accompagnata da un commentario sociale che lo rende un vero protagonista del decennio. Il successo arriva due anni dopo con "Shock the Monkey" che lo porta addirittura alla famosa esibizione Sanremese in cui lanciandosi con una corda sulle teste del pubblico attonito, finisce con la schiena direttamente su un amplificatore del palco, rompendolo.
A dieci anni dalla sua uscita dai Genesis, Gabriel ritorna ad essere un "rock star" con "So", che non solo produce una scia di singoli da classifica ("Sledgehammer", Don't Give Up", "Big Time", "In Your Eyes" e "Red Rain") ma "Sledgehammer", negli Usa, arriva al primo posto rubandolo ad "Invisible Touch" dei suoi vecchi compagni Genesis. L'enorme successo del disco e' inoltre inestricabilmente legato all'uso innovativo che Gabriel fa del videoclip, rendendolo uno degli artisti piu' innovativi in assoluto. Ma la vera novita' e' che "So', nonostante contenga tutti gli elementi della ricerca sperimentale di Gabriel, (l'uso dei campionatori e della musica elettronica, gli interventi di musica etnica, le liriche impegnate su temi sociali od ispirate ad oscuri esperimenti psicologici)  presenta canzoni  strutturate in maniera accessibile a tutti, trovando la formula magica che coniuga arte e commercio in maniera perfetta.
In "So", Gabriel mostra il suo amore per il soul stile Motown in "Sledgehammer" ma riempie il testo di metafore sessuali piuttosto che un generico inno all'amore. In "Red Rain", (a mio avviso il pezzo migliore del disco) e' il sogno a farla da padrone; il toccante duetto con Kate Bush "Don't Give Up" affronta il tema sociale della disoccupazione mentre la world music ed il suo amore per la musica etnica, entrano con un netto contrasto nella gioiosa "In Your Eyes" supportato dai vocalizzi di Yossou N'Dour; ma non mancano le pagine oscure come "Mercy Street" dedicato alla poetessa americana Anne Sexton, e "We Do What We're Told" che prende spunto dal famigerato esperimento Milgrim sull'obedienza verso l'autorita'. C'e' poi per finire, "Big Time" che con il suo ritratto sarcastico del successo e della fama ha la stessa funzione della lettera che Gabriel scrisse ai fan dieci anni prima per giustificare il suo abbandono dai Genesis.
Dopo "So" infatti, Peter Gabriel avra' una serie di problemi personali legati alla sua situazione familiare, anni di terapia di coppia che si concluderanno con un divorzio, la turbolenta relazione con la Arquette, l'ostilita' della figlia etc, tutti incubi che inevitabilmente finiscono nei due album seguenti che formano (come mi piace chiamare) la trilogia delle sillabe ("So", "Us", "Up"). La distanza che separa l'uscita di questi album (6 anni tra "So" e "Up" e ben 10 anni tra "Us ed "Up"), e' in qualche modo la testimonianza della difficolta' di Gabriel a mantenere l'equilibrio tra pubblico e privato in una sorta di auto profezia nel quale si avverano tutte le paure.
"So" rimane il suo traguardo piu' alto in una storia che comunque non puo' che suscitare ammirazione nei riguardi di una dei piu' interessanti, originali ed umanamante straordinari artisti dei nostri tempi.
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DESTROYER - "Kaputt"

12:11
Con un nome come Destroyer ed un album intitolato "Kaputt" uno si aspetterebbe un disco di death metal. Invece, il nono album di Dan Bejar (gia' membro dei The New Pornographer ) come Destroyer (che e' un gruppo che cambia continuamente componenti) e' un tributo al soft rock degli anni '80 nello stile di Donald Fagen, Prefab Sprout ed anche Talk Talk. Il primo ascolto e' stato decisamente spiazzante, ma superata la sorpresa, il disco continua a girare nel mio ipod con una certa insistenza ed ad ogni ascolto cresce il piacere di ascoltarlo. Il disco e' sicuramente una sfida, anche perche' gioca pericolosamente sul filo della melensa che a tratti lo avvicina piu a Kenny G che agli Steely Dan. Ma la sfida e' decisamente riuscita ed il fascino del disco e' proprio nella sua linea di confine tra il becero commercialismo stile MTV anni '80, ed una sofisticata musica lounge che ha il sapore di un elegante bar notturno con pochi avventori rimasti. Anche perche', se si fa attenzione alle parole, si scopre qua e la che il disco assomiglia piu' alla fine di una festa, al ritorno a casa dopo i bagordi con la sensazione di aver sprecato del tempo (" scrivo poesie per me stesso", "Perdendo tempo a cercare ragazze tutta la notte e cercare cocaina nei retrobottega del mondo tutta la notte"). Insomma, un disco che si ascolta a vari livelli con il risultato che la soffice e rilassante superfice nasconde un lato oscuro che e' ancora piu' inquietante e che si conclude con gli undici minuti di "Bay of Pigs" che e' quasi un riassunto dell'intero album. Non un disco per tutti i palati ma decisamente un affascinante ed originale ascolto.
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FERGUS & GERONIMO - "Unlearn"

12:37
Fergus & Geronimo sono un duo texano (Jason Kelly e Andrew Savage) al loro esordio dopo aver pubblicato una serie di singoli che hanno creato una certa aspettativa ("Never Satisfied", "Turning Blue"). Per capire bene la natura del gruppo, basti pensare che il nome e' stato preso da un oscuro film intitolato "The war of the buttons" in cui due gang rivali di ragazzini si sfidano in battaglie in cui i vincitori tolgono tutti i bottoni dai vestiti dei perdenti per farli restare mezzi nudi ed avere guai con i loro genitori. Come potete immaginare, i capi delle due band rivali erano Ferguson e Geronimo che, da veri nemici, nutrono una certa ammirazione per entrambi. Sembrerebbe un fuori tema quello della spiegazione del nome, ma la musica di Ferguson & Geronimo e' fatta di un intelligente e sarcastico mix di garage rock e pshichedelia che ricorda da vicino i primi album di Frank Zappa specialmente in  "Where the Walls Are Made of Grass" o "Wanna Know What I Would Do" in cui il duo prende in giro la scena indie rock moderna come il grande Frank si divertiva a desacralizzare la scena hippie di San Francisco. Proprio come Zappa, c'e' una certa dose di doo woop in canzoni quali "Powerful Lovin" e nella title track "Unlearn" mentre nelle canzoni piu' garage ("World Never Stop" e "Michael Kelly") si capisce che il duo ha un inclinazione per le melodie che appartengono alla tradizione pop. Un bell'esordio dunque, pieno di sorprese e dinamismo,  in un viaggio tra i generi ed influenze del passato aggiornate per il nuovo millennio.
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THE DECEMBERISTS - "The King Is Dead"

12:15
"The King Is Dead" potrebbe assere la piu' bella sospresa del 2011, per quanto mi riguarda. Non ho mai sopportato i Decemberists piu' di una canzone qua e la',  ed ho sempre pensato che il loro approccio musicale fosse estremamente elitario per non dire, a volte, estremamente noioso. Ma "The King Is Dead" e' un animale completamente diverso, privo di ogni arzigogolo lirico e musicale. Questa volta e' abbastanza evidente quanto Colin Meloy sia un fan dei R.E.M ed il fatto che Peter Buck suoni nel disco ne conferma il sospetto, mentre Gillian Welch aiuta a dare alle melodie dei pezzi l'armonia necessaria a renderle piu' profonde. E' ancora una volta la prova che non c'e' niente di piu' difficille che essere semplici, e con il loro ultimo albun i Decemberist sembrano aver trovato la luce proprio come indica la copertina del disco. L'apertura e' affida alla bellissima "Don't Carry It All" e si chiude con l'altrettanto intensa ballata "Dear Avery". Quello che c'e' in mezzo e' un omaggio alla migliore tradizione folk, country e rock della musica americana e l'uso di chitarre slide, armonica, violino aiutano ad entrare in un territorio familiare eppure sempre ricco di sorprese. C'e' solo da augurarsi che "The King Is Dead" sia il primo disco di una nuova fase per i Decemberists e non un episodio isolato e che abbiamo finalmente intrapreso la via che passa prima dal cuore piuttosto che dalla testa.
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WIRE - "Red Barked Tree"

11:55
Non e' facile raccontare la storia dei Wire, ma certamente si puo' dire che a distanza di trent'anni di attivita' musicale sono uno dei pochi gruppi nati durante l'esplosione del punk che ancora sono rilevanti.  Nelle loro varie incarnazioni non hanno mai avuto la tentazione dell'autocelebrazione ma sono sempre rimasti fedeli all'idea di evoluzione e sperimentazione che li ha resi in qualche modo immuni al passare del tempo. "Red Barked Tree" non e' certo paragonabile al seminale debutto "Pink Flag", ma il punto e' proprio questo: nessun album dei Wire e' stato simile al precedente. Le undici canzoni che compongono "Red Barked Tree" sono dei piccoli gioielli assemblati con sapienza sia quando brillano della loro natura piu' rock ("Two Minutes", "Moreover") o nella loro incarnazione piu melodica ("Please Take" e la title track). Ma i generi, per i Wire, sono sempre stati delle tele bianche su cui strutturare, o meglio, destrutturare l'idea stessa della creazione. Dopo tutto quanti altri gruppi vantano nel loro catalogo album castruiti sulla versione della stessa canzone come "The Drill"? Non avendo mai avuto il "successo" che altri gruppi hanno avuto il piacere di assaporare,  i Wire i hanno mantenuto la liberta'di seguire solo il loro gusto. "Red Barked Tree" non li rendera' certo famosi ma, a questo punto, possiamo dire che e' meglio cosi'.
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BRITISH SEA POWER - "Valhalla Dancehall"

11:42
Per chi come me ha amato "Do You Like Rock Music?", il nuovo album dei British Sea Power e' un gradito ritorno. Sebbene ci siano differenze tra i due album, I British Sea Power sembrano aver trovato una linea di esplorazione che differisce nei particolari piuttosto che nell'impianto complessivo. Le canzoni di "Valhalla Dancehall" (il titolo scherzosamente allude ad un party ultraterreno in cui Thor e Scratch Lee Perry si divertono insieme) sono dei veri e propri inni senza la grandiosita' superficiale da stadio ("Who's in Control",  "We Are the Sound"), intervallati da ballate altrettanto intense ("Luna", "Baby", "Cleaning Out The Room) e da canzoni che sono piu' direttamente legate all'album d'esordio ed hanno un sapore piu' indie ( "Stunde Null" e "Thin Black Sail", non a caso le canzoni piu' corte). "Valhalla Dancehall" e' dunque il classico album in cui il gruppo e' capace di rendere omogeneo tutta una serie di stili esplorati nel passato trovando un comune denominatore che li rende padroni del loro materiale. La diversita' di stili e' pero' il pregio ed il difetto dell'album, in quanto, nonostante rende il disco dinamico non aggiunge niente di nuovo al canone. Resta comunque il fatto che le canzoni sono costruite su delle accattivanti melodie ed e' difficile rimanerne immuni. Sono ormai giorni che mi ritrovo inaspettatamente a fischiettare "Living Is so Easy" senza nemmeno accorgermene.
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CAKE- Showroom of Compassion"

09:30
Sono passati ben sette anni dall'ultimo album dei Cake, "Pressure Chief" e, sebbene non molto e' cambiato nel loro universo sonoro, molto e' cambiato nel panorama sonoro intorno. Questo fa si che la loro musica suona oggi ancora piu' stramba ed originale di quanto lo era quindici anni fa. I Cake non giocano il ruolo dei sopravvissuti della scena indie pop degli anni '90, ma continuano imperterriti a seguire il loro istinto musicale aggiungendo piccole gemme al loro gia' ricco caalogo. Il brano d'apertura 'Federal Funding" e' in pieno stile Cake, sarcastico nel testo, musicalmente accattivante e cantato con la stessa attitudine di sempre da John McRea, cioe' con quella sorta di lamento che sembra quasi che ti sta facendo un favore. Oltre al brano d'apertura, ci sono almeno altri due pezzi che sono riconoscibili all'istante, il singolo "Sick of You" e "Got to Move" mentre la solita cover stavolta rende omaggio ad un oscuro pezzo di Frank Sinatra "What's Now Is Now". La distanza che separa il nuovo album dall'ultimo, ha portato anche il gruppo a produrre il proprio materiale ed a registrarlo nel loro studio completamente alimentato ad energia solare. Non che questo abbia un effetto sulla musica, ma dimostra come i Cake siano un gruppo a se, distanti dal clamore ma coerentemente capaci di portare avanti una visione musicale originale. In "Sick of You" McRea canta: "every camera every phone, all the music that you own, won't change the fact that you're all alone", a dimostrazione che i Cake, nonostante una lunga  assenza, hanno ancora gli occhi puntati sulla realta' con uno sguardo critico che pero' comprende appunto una certa dose di compassione.
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"Il giornalismo musicale è fatto da persone che non sanno scrivere che
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