Sotterranei Sonori
Blog settimanale di informazione musicale

THE BLACK KEYS - "Brothers"

11:07
Per il loro sesto album, i Black Keys scelgono di produrre il loro disco quasi da soli e di farlo in uno degli studi leggendari della musica soul:  Muscle Shoals. Il fatto che anche la copertina richiami quella di un vecchio disco di Howlin Wolf ("This Is Howlin' Wolf's New Album") fa pensare che gli esperimenti condotti nell'album precedente "Attack and Release", prodotto da Danger Mouse,  siano stati abbandonati per un ritorno al suono duro e puro degli esordi. Ma, ovviamente, la smentita arriva puntuale all'ascolto. "Everlasting Light", il pezzo di apertura, sembra un pezzo inedito dei T-Rex cantato da Prince, con un andatatura che può essere considerata anche ballabile. Da li in poi, il mix di blues, soul e R&B, diventa in realtà un compendio di tutto ciò che i Black Keys hanno imparato durante la loro carriera (dischi solisti e progetti alternativi compresi). C'è ancora il tocco inconfondibile di Danger Mouse in "Tighten Up", cosi come c'è una cover di Jerry Butler ( "Never Give You Up"), e se in "She's Long Gone" si può sentire l'eco lontano dei Led Zeppelin, in "Sinister Kid" suonano quasi funk. Non c'è mai però una sensazione di nostalgia, perchè dove i Black Keys sono cresciuti tanto è nella loro capacità di scrivere canzoni nuove in continuità con una tradizione, dimostrando come il passato in realtà sia sempre presente quando la musica è di qualità.
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LCD SOUNDSYSTEM - "This Is Happening"

04:29
Appena si è cominciato a rumoreggiare di un nuovo album di LCD Soundsystem le mie orecchie si sono messe subito in allerta. Poi ho sentito il primo singolo, "Drunk Girls", e la mente è andata alla trilogia berlinese di Bowie. Alla fine, quando finalmente è uscito il disco ed ho visto la copertina, ho capito che era proprio li che si voleva puntare. Ma di tutta la trilogia Bowiana, "This is Happening" è più vicino a "Lodger" (anche se "All I Want" sembra quasi una cover di "Heroes"). Con questo terzo capitolo di una mai dichiarata trilogia, James Murphy continua a sfoderare una supremazia ed una conoscenza della musica impressionante, una  musica che si può sia ballare che ascoltare senza mai essere scontata o prevedibile. LCD Soundsystem è il miglior cantore delle notti passate tra locali, balli e compagnie varie, e lo fa, conoscendo la materia, da vero intellettuale. In queste nove lunghe tracce, non si ha mai la sensazione che le cose si ripetano e questo è già un piccolo miracolo per un album di elettronica dance.  Ma in "This Is Happening" si balla un po di meno e si ha la sensazione che i racconti riguardano più la fine che l'inizio della festa. Non a caso, penso, che si parli di questo disco come di un possibile ultimo lavoro. Se così fosse (e non fosse anche questo un retaggio Bowiano) ci avrebbe consegnato tre dischi che parlano di questo decennio meglio di chiunque altro.
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JANELLE MONAE' - "The ArchAndroid"

02:13
Io mi auguro che ognuno di voi possa avere la fortuna di fare l'esperienza di mettere su un paio di cuffie per ascoltare della musica ed avere la sensazione di essere caduto nel buco nel quale cade Alice per ritrovarsi nel mondo delle meraviglie.
Tale è la sensazione di fronte all'ascolto di "The Arch Android" di Janelle Moané. La sua capacità di entrare ed uscire dai più disparati stili musicali mette a dura prova la possibilità di ascoltare qualsiasi altro disco per parecchio tempo. Non si può parlare di influenze, piuttosto di una fusione nucleare tra l'immaginario extraterreste del Bowie era Ziggy, le innovazioni ritmiche di James Brown, le melodie indimenticabili di Stevie Wonder, le impeccabili orchestrazioni di Marvin Gaye, le caratterizzazioni fumettistiche del funk dei Parliament/Funkadelic, il caleidoscopico mondo ibrido di Prince, il rock nero di Sly Stone, l'emozionante fraseggio di Billie Holiday, le armonizzazioni di Simon & Garfunkel, il Rocky Horror Picture Show, i trapezisti del Cirque du Soleil, i migliori musical di Broadway, le voci e gli strumenti al contrario dei Beatles, l'eleganza di Sade... e chi più ne ha più metta!
Se a tutto questo si aggiunge il fatto che Janelle Moané ha solo 24 anni e che questo è il suo disco d'esordio non posso che concludere dicendo: benvenuti nel futuro!
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

09:47
PINK FLOYD 
"The Dark Side of the Moon" (1973)

La reputazione di "The Dark Side of the Moon" è così alta che sembra quasi superfluo continuare a scriverne. La cosa straordinaria è che questa reputazione non è mai scesa e continua a conquistare nuove generazioni di ascoltatori. E' l'album dei record essendo il terzo più venduto di tutti i tempi ( dopo "Thriller" di Michael Jackson e  "Back in Black" degli AC/DC) ma è quello che ha il maggior numero di presenze nella classifica americana di Billboard essendoci apparso,  cumulativamente, per ben 1600 settimane (pari a 31 anni). Ora, è ovvio che tutto questo non può essere semplicemente dovuto ad un caso, ne alla voglia degli autori di costruire un disco dalle grandi potenzialità commerciali ma la conferma che l'enorme suggestione provocata da un opera artistica non risponde a nessuna logica (figuriamoci a quella di mercato!). Quello che però emerge anche da successive interviste con i membri del gruppo è che c'era la consapevolezza di aver realizzato un opera di cui andar fieri. Da questo momento in poi, i Pink Floyd sarebbero stati un gruppo diverso da quello che erano stati prima, nel bene e nel male.
La strada che porta alla realizzazione di "The Dark" è lunga ben sette albums. La storia iniziata nel 1967 con la pubblicazione di "The Piper at the Gates of Dawn"(da alcuni considerato il loro vero capolavoro) è minata subito dall'uscita di scena di Syd Barrett  per problemi mentali. Questo episodio poteva benissimo significare la sparizione totale del gruppo.  Nessuno poteva prendere il  suo posto e  quello delle sue visioni. Ma proprio la forza di quella "pazzia" ha consentito ai superstiti di continuare a fare musica. Il periodo seguente ha tutto il sapore dell' elaborazione di un lutto. Il distacco dalle origini è lento e sofferto e composto da albums che si dibattono tra la voglia di rimanere fedeli e quella di liberarsi da una figura tanto importante quanto ingobrante.
Con "The Dark" i Pink Floyd trovano un equilibrio perfetto che, sebbene segni l'inizio di una dominanza delle ossessioni e dei temi cari a Roger Waters, trova una sintesi tra musica e parole, accessibilità e sperimentazione, alienazione e comunicazione. L'idea di scrivere una serie di canzoni sulla condizione umana porta ad una "semplificazione" dei testi che diventano diretti e trova l'accordo e, soprattutto l'apporto essenziale ed ugualmente importante , degli altri tre componenti del gruppo: Dave Mason, David Gilmour e Richard Wright. Partendo da una serie di materiale già esistente, i Pink Floyd perfezioneranno le idee dell'album attraverso una serie di concerti in cui le suoneranno e le modificheranno, tanto che quando finalmente entreranno in studio per registrarle, avranno una familiriatà con il materiale altrimenti impossibile. Ed è proprio in studio che l'album prende quella fisionomia da "concept" che si apre e si chiude con il battito di un cuore.
Anche il titolo "The Dark Side of the Moon" prende forma in studio, quando era solo una delle domande che Waters  rivolgeva a tutti quelli che in qualche modo giravano dalle parti dell'Abbey Road Studios, e che andavano da Paul e Linda McCarteny fino al portiere dello stabile (domande tipo: "cosa significa per te la faccia oscura della luna?", "Quando è stato l'ultima volta che sei stato violento?" "Hai paura della morte?") registrando le risposte. Queste domande contenevano tutti i temi che erano compresi nell'album e le risposte più interessanti finirono nel mix di voci che si sentono per tutto il disco. L'idea di intervistare persone famose e sconosciute, fece si che le risposte scelte avessero un aspetto più universale e sincero e quindi più funzionali al concetto stesso del disco. La follia, la solitudine, l'alienazione, la ricchezza, il passare del tempo e la morte, sono così sublimati da una empatia che rende argomenti così pesanti (e così avulsi dalle tematiche rock) fruibili e condivisibili in quanto parte intima di ogni essere umano.
Tutto questo si accompagna ad una struttura musicale che è anche essa estremamente efficace. Rinunciando alle suite caratteristiche dei lavori precedenti, l'album è composto di canzoni legate una all'altra da rumori, dissolvenze, assolvenze e incastri, che sono assolutamente perfetti nella loro sincronicità con la musica, facendo dello studio (e dell'allora ancora solo tecnico del suono Alan Parson) il quinto elemento del gruppo. Questa accessibilità musicale si nota anche nell'introduzione di cori femminili ("Brain Damage", "Eclipse" e "Time") nella splendida esecuzione vocale di Claire Torry (che riesce a dare voce a "The Great Gig in the Sky" senza dire una sola parola) ed anche nell'uso del sax di Dick Parry nel assolo di "Money" and in "Us and Them".
Ma quello che rimane impresso, è che tutti gli elementi che compongono il disco (le melodie orecchiabili, le voci e le risate, i rumori) hanno la capacità di far "vedere" la musica, e quindi rendono impossibile l'ascolto se non nella sua interezza.
Con "The Dark Side of the Moon" i Pink Floyd diventano un gruppo mastodontico ma anche delle rockstar atipiche. Riescono infatti a comunicare attraverso i loro dischi più che attraverso le loro persone. Sebbene a differenza dei Beatles non smetteranno di fare concerti, porteranno avanti quel discorso iniziato dai fab four con "Sgt. Peppers". Il prisma triangolare che scompone il raggio di luce in uno spettro colorato è sicuramente molto più conosciuto delle loro facce.
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THE NATIONAL - "High Violet"

07:22
The National è un gruppo dalla storia di altri tempi. E' uno di quei gruppi, cioè, che ha raggiunto la notorietà attraverso un lavoro costante costruito con tenacia e passione disco dopo disco. Oggi, con l'uscita di "High Violet", il loro quinto album ed il primo per l'etichetta 4AD, sono tra i massimi esponenti della musica indipendente americana, in particolare di quella scena che rende Brooklyn un posto così speciale. Dopo l'acclamatissimo "Boxer" (che conteneva tra l'altro "Fake Empire" usata anche da Barack Obama nella sua campagna elettorale prima come sottofondo di un video elettorale e poi  durante i festeggiamenti per la sua vittoria al Grand Park di Chicago) i The National affrontano le attese con un album dalle atmosfere sommesse, affrontando temi non semplici come la paura, la delusione del diventare adulti, ed il racconto di una New York che non è certamente quella turistica dei grattacieli e della città che non dome mai. Ma non è un disco angosciante. E' più un disco notturno, un elogio alla sincerità sentimentale raccontata con il cuore in mano, senza necessità di grandi gesti, quasi un sussurro dell'anima. Tutto questo è pane per i denti di Matt Berninger, che canta i propri testi evocativi come una chiacchierata tra amici intimi in cui si rivelano le verità del proprio sentire. Il disco cresce di tono man mano che si procede all'ascolto, come un discorso informale che diventa via via sempre più intenso ed al quale, alla fine, siamo lieti di aver partecipato.
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THE NEW PORNOGRAPHERS - "Together"

14:07
I New Pornographer sono un supergruppo canadese nel quale  convivono artisti dalla solida  carriera solista non solo musicale, i più noti tra i quali sono A.C. Newman, Neko Case  e Dan Bejar (Destroyer). Ora, è probabile che questi nomi non vi dicano niente, ma i tre hanno sfornato nel corso degli anni fantastci lavori solisti come "Slow Wonder" (A.C. Newman), "Ruby's Destroyer" (Dan Bejar con il nome appunto di Destroyer), e "Blacklisted" (Neko Case) che vi consiglio caldamente di ascoltare. Quando però i nostri si riuniscono sotto il nome di The New Pornographer ribadiscono il vecchio detto che dice che l'insieme è più grande della somma delle singole componenti. Questo è particolarmente vero in "Together" (titolo che lascia già capire qualcosa forse) album che è più vicino al fantastico "Twin Cinema" del 2005 rispetto al precedente "Challenger". Lo si capisce sin dalla prima traccia, "Moves", che siamo di nuovo alle prese con un power pop costruito con maestria . Gli archi inizali, e poi la betteria e quel martellante piano, costruiscono un solido macigno per le voci di Newman e Case. Ma il pezzo si sviluppa con continue invenzioni negli arrangimenti dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto il gruppo abbia in se quella non scontata qualità di essere facile ma non immediato, intelligente ma non autoindulgente. Le melodie sono il loro forte e qui ne danno una prova egregia. Se c'è una novità da segnalare, e la maggiore presenza di Neko Case alla voce solista, il che non può che essere un miglioramento. Ecco, è proprio la loro semplicità sofisticata a rendere i New Pornographer un gruppo unico. Se si ascoltano ripetutamente, si entra in un mondo sonoro fatto di tante sfumature, ma l'accesso è immediato e aperto a tutti. Bravi!!
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TUNNG - "...And Then We Saw Land"

08:38
"And Then We Saw Land" è proprio un titolo azzeccato per il nuovo album dei Tunng. Uscito a tre anni di distanza dal precedente "Good Arrows", segna il ritorno d un gruppo che ha trovato finalmente una sua fisionomia. Non che ci sia un grosso spostamento musicale, ma il loro mondo sonoro si è fatto più sicuro, più ampio e più coeso. I Tunng nascono infatti come un duo composto da Sam Genders e Mike Lindsay con il quale collaborano amici per le registrazioni in studio. Quando però si tratta di portare il primo frutto della loro collaborazione ("Mother's Daughter and Other Songs" del 2003) in tour, Gendes prende il ruolo di membro fantasma il quale lavora soprattutto ai testi. E' quindi l'esperienza live che piano piano trasforma i Tunng da un progetto musicale ad un vero e proprio gruppo, producendo nel frattempo altri due album.  Ora Sam Gendes non è più della partita, e questo è forse il motivo della lunga gestazione di questo album. Però, tutti i cambiamenti avvenuti nel frattempo hanno in realtà lavorato a loro vantaggio e la loro fusione tra folk ed elettronica è qui bilanciata con estrema efficacia. Il merito va certamente al lavoro collettivo ed alla maggiore presenza della bella voce di Becky Jacobs che insieme a Lindsay rende le melodie così accattivanti (tanto che il pezzo strumentale "By Dusk They Were in the City" risulta il meno avvincente). Questo equilibrio è reso benissimo sia nell'iniziale "Hustle" che in "Sashimi" ma soprattutto in "Don't Look Down or Back" che suona come un pezzo rock diretto, con una bella chitarra elettrica a marcare l'inciso. Insomma, se questa è la terra dove i Tunng vogliono fermarsi per un pò, non c'è che da rallegrarsene.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

09:14
RADIOHEAD
"Ok Computer" (1997)

"Ok Computer" non è soltanto l'album di svolta dei Radiohead ma è anche l'album che ci introduce nel nuovo millennio, seppur con qualche anno in anticipo. Se, infatti, gli anni novanta iniziano nel 1991 con "Nevermind" dei Nirvana, finoscono proprio con questo album.
I Radiohead infatti danno il colpo mortale sia al brit pop che al grunge, due generi che, seppur con le loro differenze, escludevano qualsiasi forma di contaminazione con la musica elettronica che negli anni 90 aveva sviluppato una sua entità autonoma e contrapposta al rock.
Ovviamente, i Radiohead non erano i soli a seguire questa strada ma lo fecero indiscutibilmente meglio degli altri. "Ok Computer" infatti, è a tutti gli effetti un disco rock ma i suoi riferimenti e rimandi sono talmente ampi da elevarlo al rango di classico moderno. Quello che i Radiohead faranno in seguito, sarà un approfondimento consapevole del lavoro fatto qui e, sebbene molti considerano "Kid A" come la vera svolta e il capolavoro del gruppo, niente sarebbe stato possibile senza "Ok Computer".
Considerati all'inizio come un gruppo dal successo fortuito, ("Creeps" fu un successo prima in America a poi nel Regno Unito dove al'inizio venne completamente ignorato) e poi come possibili continuatori dell'epopea degli U2, i Radiohead decisero di prendere in mano il proprio destino di gruppo allontanandosi volontariamente dalle tensioni da studio e registrando da soli senza l'aiuto di un produttore. Il coinvolgimento di Nigel Godrich alla produzione infatti, è una posizione conquistata sul campo.
Nel costruire il loro ambiente di lavoro, i Radiohead sfruttarono la mancanza di pressione da parte della EMI per sperimentare ed includere tutte le influenze musicali che fino a quel momento erano state solo accennate nei due album precedenti. Secondo Tom Yorke, il punto di partenza sarebbe addirittura "Bitches Brew" di Miles Davis  che descrive così alla rivista Q: "un suono terrificante ed incredibilmente denso". Poi ci sono le suggestioni cinematografiche alla Morricone, quelle del compositore classico moderno Penderecki tanto amato da Greenwood senza però dimenticare Beatles e Beach Boys o i sampler ritmici di DJ Shadow nella iniziale "Airbag".
La cosa straordinaria è che i Radiohead, nel tentativo di cimentarsi con queste influenze ne reinterpretano lo spirito creando un suono del tutto originale proprio grazie alle loro mancanze. L'approccio libero musicale, si accompagna anche ad un diverso approccio lirico, che rende "Ok Computer" un opera unitaria anche senza essere un classico concept disc. La prospettiva senbra essere quella della distanza, dell'osservazione lontana e critica della condizione umana all'interno della società moderna. Una distanza che viene resa perfettamente in "Fitter Happier" in cui le parole vengono fatte recitare dall'applicazione Simple Text di un Machintosh. Ma in realtà, il cantato di Yorke rende questa distanza dolorosamente emotiva e coinvolgente, e le immagini frammentarie ed ermetiche restituiscono pienamente la sensazione di spaesamento, paura, e confusione dell'uomo moderno che sono oggi ancora più valide.
Il successo di "Ok Computer" insomma, non era affatto scontato. Avrebbe potuto relegare i Radiohead ad un gruppo di nicchia. La scelta di far uscire come primo singolo "Paranoid Android", lungo più di sei minuti e dalla struttura musicale complessa (quindi con la possibile esclusione dai circuiti radiofonici) lasciava però capire quando i Radiohead fossero consapevoli del materiale che avevano tra le mani. Infatti divennero il gruppo da seguire, da imitare, raggiungendo  un successo enorme e ponendo le basi per tutta una serie di gruppi che sarebbero poi usciti negli anni 2000 (Coldplay in testa, da molti considerati, secondo me ingiustamente, i Radiohead dei poveri).
Oggi i Radiohead hanno conquistato un posto di prestigio nel panorama del rock, rendendoli inimitabili e quasi sacri. La loro distanza dal carosello pop odierno ha fatto si che la loro integrità artistica venga percepita come il baluardo dell'autenticità, dell'indipendeza e della libertà artistica anche se ben consapevoli della contraddizione insità nel loro ruolo di rockstar. "Ok Computer" resta il fondamento su cui si è costruita tutta la parabola artistica della stella dei Radiohead e di tutti i loro satelliti.

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HARLEM - "Hippies"

04:48
C'è sempre qualcosa di straordinario quando qualcuno decide di imbracciare gli strumenti,  mettere su un gruppo e suonare. Qualunque sia il risultato, l'azione in se rivela il desiderio di prendere in mano il proprio destino e farlo andare nella direzione voluta. Gli Harlem sono uno di quei gruppi. Testimoni della scena indie di Austin, Texas, (un altra di quelle città musicali americani dalla scena sempre in fermento), non c'è niente di nuovo nella musica che suonano, trattandosi di  garage rock. Però la mancanza di pretensiosità, lo spirito entusiasta e l'urgenza con il quale mettono su disco questi sedici pezzi da massimo tre minuti l'uno, li portano, magari inconsapevolmente, a sottolineare uno degli aspetti che ha sempre fatto del rock un arte particolare: cioè l'attitudine come parte del messaggio.
Le canzoni volano via veloci, un dopo l'altra, nel classico miscuglio tra melodie anni '60 e  l'attitudine punk alla Ramones (o forse, meglio ancora, alla Modern Lovers). C'è sicuramente il tentativo di differenziare i pezzi con accenni di arrangiamenti non monolitici, ma la sostanza risiede proprio nel fatto che gli Harlem suonano esattamente come se fossero musicisti e spettatori allo stesso tempo, e quindi si divertono divertendo. Questo primitivismo a volte dice molto di più di inutili complicazioni, perchè essere giovani, a volte, è tutto quello che serve per imbracciare una chitarra e dire "Ehi, esisto anch'io!".
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THE SCHOOL - "Loveless Unbeliever"

05:09
Sono appena trascorsi cinque mesi dall'inizio dell'anno e questo nuovo decennio sprofonda sempre di più in una crisi che almeno noi non avevamo mai visto o subito. Il disfacimento e l'imputridimento della situazione ci lascia senza parole, senza immagini, segna sogni, senza voglia. Dove sono le nuove generazioni? Cosa fanno? Ci sono talmente tanti segnali in giro che incitano alla rivolta, all'urlo, persino alla bestemmia. Siamo sotto una pressione costante da parte del potere da essere regrediti perchè, come diceva Pasolini, la storia non sempre va avanti. Allora giuro, se sento un altro disco di canzoni pop ben fatto, di melodie e ritornelli orecchiabili che si rifà agli anni '60.....
Mi viene in mente la scena del Piccolo Diavolo dove Benigni guardandosi allo specchio grida "Oddio, un mostro...però un mostro bellissimo!". Ecco, dopo lo sfogo, non posso che arrendermi e rimanere in attesa perchè non si può resistere al fascino di questo disco. Infatti sembra proprio di essere a scuola, e la materia è quella del Brill Building pop e dei gruppi femminili degli anni sessanta. La copertina rosata da zucchero filato e lo sguardo da adolescente in pena amorosa di Liz Hunt (cantante e autrice del gruppo)  sembra  congiurare verso una melensaggine da diabete. In realtà "Loveless Unbeliever" sembra un greatest hits di gemme sconosciute scoperte nei sotterranei del famoso palazzo sulla Broadway. Anche se i gallesi The School,  probabilmente si rifanno più ai contemporanei (e scozzesi) Camera Obscura che alle Shangri-La's, certamente contribuiscono a ridare dignità artistica ad una periodo della storia del rock considerato ancora come leggero. Forse ci sarebbe bisogno di un altro visionario alla Phil Spector o di un Brian Eno sentimentale per fare da queste scintille un gran bel fuoco.
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JONSI - "Go"

02:40
Confesso di di non essere mai stato particolarmente entusiasta del lavoro dei Sigur Ros. I loro paesaggi sonori, per quanto sicuramente affascinanti, mi hanno sempre lasciato quella sensazione di freddezza emozionale che non riusciva a coinvolgermi. Ora i Sigur Ros si sono presi una pausa che non sappiamo esattamente quanto durerà ma a colmare il vuoto ci pensa  Jonsi, voce del gruppo, con questo suo lavoro. E allora ci ho provato ancora; mi sono messo le cuffie, ho chiuso gli occhi, preparato a compiere il solito viaggio tra immense distese di ghiacciai e sfumature di bianco, grigio ed azzurro. E invece... Jonsi è esploso proprio come il vulcano della sua natia Islanda o più semplicemente come la copertina dell'album. Il disco sprizza energia da tutti i solchi dove le ritmiche la fanno da padrone e gli arrangiamenti così magnifici (grazie al suo collaboratore, il compositore Nico Muhly) diventano la colonna sonora di un risveglio. Tutto è chiaro sin dall'inizio, con l'introduttiva "Go Do", una sinfonia di strumenti che si intrecciano su una ritmica marziale e il delicato falsetto di Jonsi che vola sopra ogni nota. Si conferma nella ancora più ardita "Animal Arithmatic" dove il caos ordinato della musica costruisce l'ideale contorno per un cantato quasi da filastrocca pagana e si conferma definitivamente nella splendida "Boy Lilkoy" che tra flauti, archi e campanelli cresce e si arresta come una corsa in mezzo ad una natura che fiorsce sotto i nostri occhi. Nel disco non mancano momenti più rilassati che ci ricordano da dove Jonsi arriva, ma in questo contesto formano un contrappunto che è funzionale al disco e che quindi diventano momenti di respiro assolutamente necessari per riprendere fiato. "Go" è un disco che si fa ascoltare più e più volte perchè ogni volta rivela un colore, un timbro, un suono nuovo che difficilmente risalta subito data la maestosità dell'insieme.
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THE TALLEST MAN ON EARTH - "The Wild Hunt"

03:56
"L'uomo più alto della terra" è  un sopranome alquanto curioso da adottare per un cantautore. Dietro di esso si cela un giovane svedese che si chiama in realtà Kristian Matsson alla sua seconda prova discografica. Dopo l'esordio "Shallow Grave" nel 2008, ed un tour negli Usa con Bon Iver prima e John Vanderslice dopo, Mattson prosegue il suo cammino passando direttamente ad una casa discografica americana (la Dead Oceans) che gli permetterà di godere di una distribuzione più ampia nella nazione che evidentemente esercita un fascino particolare nel suo immaginario musicale. Si perchè l'immediato confronto che viene subito alla mente è quello inevitabile con il Bob Dylan acustico, perchè qui, c'è un uomo solo con la sua chitarra acustica, con un accento americano che non rivela affatto la sua provenienza svedese, ed una voce nasale a tratti rauca che non può sfuggire all'accostamento.
Però, dopo ripetuti ascolti, si resta totalmente affascinati dalle bellissime melodie e dalle immagini evocative dei suoi testi, con canzoni bellissime che hanno la forza di stare in piedi così scarne ed essenziali perchè Mattson ha un assoluta padronanza dello strumento. Il trittico iniziale composto da "The Wild Hunt", "Burden of Tomorrow" e "Trouble Will Be Gone" insieme a "King of Spain" rappresentano sicuramente le vette dell'album che si chiude con una ballata al piano, lasciando forse intravvedere una possibile strada futura per Mattson. Facili paragoni a parte, questo è sicuramente un disco da assaporare lentamente come un paesaggio sconfinato visto da un treno.


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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

08:46
DAVID BOWIE 
"The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars" (1972)

David Bowie è uno di quesi personaggi che, entrato a far parte della mitologia dei grandi del rock, sembra abbia goduto del successo da sempre. In realtà le cose non stanno proprio così. Il grande successo arriva infatti proprio  con "Ziggy Stardust" che è il suo quinto album. Pubblicato nel Giugno del 1972, arriva a pochi mesi di distanza dal suo predecessore "Hunky Dory" incorporando tutti gli elementi di interesse che Bowie aveva manifestato fino a quel momento in una forma compiuta e definitiva.
David Bowie infatti non si limita a delineare le caratteristiche di Ziggy ma ne incarna la figura in una sovrapposizione talmente riuscita da "ingannare" il suo stesso inventore. Bowie e Ziggy sono la stessa cosa, portando all'estreme conseguenze il concetto di arte e vita. Con "Ziggy" si entra definitivamente nel nuovo decennio iniettando nel canone rock quell'idea di "finzione" artistica contrapposta all'autenticità degli anni '60. Si costruisce cioè una sovrastruttura culturale che è in grado di interpretare più che raccontare la realtà. Facendo questa operazione con consapevolezza, il gioco è ovviamente esagerato e sopra le righe ma anche profondamente ironico, cosa che diventerà sempre meno evidente successivamente tra coloro che ne seguiranno la strada.
Nel creare il personaggio di Ziggy, Bowie mette insieme passato e presente per proiettarsi direttamente nel futuro. La "storia" è solo abbozzata, quasi mai coerente, segno che Ziggy è più un prodotto che si è evoluto nel tempo cambiando forma man mano che che le cose si andavano sviluppando, piuttosto che uno confezionato a tavolino.  In linea di massima, comunque, si racconta dell'ascesa al rango di rockstar di Ziggy tramite l'ifluenza di forze extraterrestri. Ziggy diventa una sorta di messia che lancia messaggi di speranza ad un mondo destinato a vivere gli ultimi cinque anni della propria esistenza ma che viene prima idolatrato e poi distrutto dal suo stesso ruolo.
Nel creare questa rock star di plastica, Bowie si serve della sua acuta osservazione della realtà entro il quale agisce, mettendo in musica una falsa biografia che però lo porta a perseguire la sua personale fame di successo. Ziggy è intriso di tutte quelle figure che Bowie ammira; Marc Bolan, Iggy Pop, Lou Reed nel campo musicale, ma anche Andy Wharol, il futuro apocalittico di Arancia Meccanica, ed il teatro giapponese adottando  l''atteggiamento "camp" teorizzato da Susan Sontag e Oscar Wilde.
Il merito va anche condiviso con il suo manager Tony Defriers, che seppe creare intorno a Bowie un aura da rockstar quando ancora non era un artista di così grande successo. Questa idea di manipolazione fu molto importante nella creazione del personaggio. Comportandosi cioè come qualcuno di famoso e importante, Bowie e Defriers furono in grado di far aderire la loro invenzione alla realtà e quindi, attraverso Ziggy, di lanciare Bowie nel regno delle superstar.
La costruzione di un personaggio "reale" si manifesta anche attraverso un estetica che si evolve con l'evolversi dell'idea. I vestiti, le acconciature ed il colore dei capelli, il trucco, danno a Ziggy un corpo che esce da tutti i canoni del rock, rafforzando l'idea di una persona appartenente ad un epoca futura e, contemporaneamente, dando  cittadinanza e dignità alla diversità, in primo luogo sessuale, che fino a quel momento era relegata in secondo piano o rappresentata in maniera parodistica e stereotipata. Prima di allora non si era mai visto nessuno esaltare l'ambiguità fino a farne un valore. Fino a quel momento, le esagerazioni dei cantanti rock e le loro gesta sessuali erano sempre confinate nel terreno dell'eterosessualità. Con L'avvento di Ziggy si scardina anche quest'altro tabù.
Ovviamente tutto questo fu possibile anche grazie ad un disco dalle canzoni memorabili ed una profonda aderenza all'idea del rock "da tre minuti" in perfetta linea di continuità con i decenni precedenti. Sebbene infatti si parli di "concept album", non siamo in presenza della presuntuosità progressive. Aprendo le danze con la ritmica assolvente di "Five Years" e concludendosi con la splendida ballata di "Rock n' Roll Suicide", "Ziggy Stardust", sebbene decisamente più elettrico di "Hunky Dory" è pieno di canzoni orecchiabili e costruite per essere dei successi. La cosa straordinaria è che, man mano che l'idea prendeva forma, anche le esibizioni dal vivo diventavano sempre più incandescenti e potenti, molto più di quello che si era riuscito a fermare su disco. Ed è proprio dal vivo che si comprendo tutta la potenza di "Moonage Daydream", "Suffragette City" e della stessa "Ziggy Stardust". Gli spettacoli (non più semplici concerti) erano infatti la conferma che David Bowie non era un millantatore ne un mero prodotto artificiale ma un vero artista che utilizzava l'artificio come mezzo di espressione sostanziale.
Da questo momento in poi, Bowie avrebbe intrapreso una carriera in ascesa che gli avrebbe permesso di cambiare generi e looks, ma l'idea di fondo che diede origine a "Ziggy Stardust" non solo è rimasta come base delle sue esplorazioni artistiche seguenti ma ha permesso ad intere generazioni future di godere di una libertà espressiva prima di allora difficile da immaginare.
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AVI BUFFALO - "Avi Buffalo"

10:12
Mi piace davvero chiudere la settimana segnalando l'album d'esordio degli Avi Buffalo. Se, come dicevo in precedenza, è bello continuare a scoprire gruppi nuovi di cui non conoscevo l'esistenza, è ancora più bello scoprire un gruppo all'esordio. Data l'età dei suoi componenti (intorno ai 19 anni) non c'è ancora molta storia da raccontare.  Il gruppo viene da Long Beach, California, ed è stato messo insieme da Avigdor Zahner-Isenberg il quale firma tutti i brani del disco (e già usava il soprannome Avi per se stesso quando il gruppo ancora non esisteva ma le canzoni si). Il gruppo è cresciuto velocemente, apparentemente senza nessuna pretesa di arrivare alla realizzazione di un album  ma semplicemente farsi conoscere (come spesso oggi succede), tramite My Space. Invece l'attenzione creatasi intorno gli ha permesso di esordire nientemeno che con la leggedaria etichetta Sub Pop. Ora tutto questo sarebbe stato impossibile se i nostri non avessero effettivamente dato alle stampe un affascinante e alquanto strano quadro sonoro. La cosa che salta subito alla mente come riferimento sono gli Shins, ma il loro gusto per una struttura leggermente obliqua delle canzoni prevalentemente giocate su chitarre acustiche contrappuntate da melodie di chiarre elettriche, il falsetto della voce raddoppiata spesso dalla tastierista Rebecca Coleman, le melodie semplici ed i testi a volte espliciti sulle frustrazioni sessuali giovanili (masturbazione compresa), ne fanno un gruppo alquanto originale. Certamente il pericolo di fronte ad accadimenti così repentini è sempre dietro l'angolo e potrebbe far si che questo esordio resti un episodio isolato. Però lascia anche intravvedere un orizzonte pieno di potenzialità in cui gli Avi Buffalo possono dire la loro con una certa autorità. Staremo a vedere; per il momento godiamoci questa piccola delizia.
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SHARON JONES & THE DAP KINGS - "I Learned the Hard Way"

04:03
Secondo Solomon Burke "il soul non è soltanto musica nera, è musica della gente che tutti possono cantare. Neri, bianchi, ebrei, italiani, tedeschi, messicani possono cantare il soul". Vero...in teoria. Infatti mi è capitato di vedere un duetto tra Ray Charles e Michael Bolton che cantano "Georgia on My Mind": Bolton ce l'ha messa tutta ma a Ray Charles è bastato dire "Georgia" e la differenza era sotto gli occhi di tutti.
Forse sarebbe meglio dire che tutti possono suonare il soul, come è evidente anche nei Dap Kings che accompagnano Sharon Jones, i quali sono per la maggior parte bianchi.  Quello che rende un cantante di colore diverso nell'interpretazione del soul è che nella sua voce c'è tutta la sua esperienza di vita, il posto da dove viene, il gospel che ha cantato in chiesa. Tutto questo rende Sharon Jones quasi unica nel trasportare nel nuovo millennio quell'esperienza, come a riprendere un discorso che pareva interrotto dall'avvento della cultura hip hop tra la comunità afroamericana. Infatti qui non siamo dalle parti del Nu-Soul, ma del soul duro e puro. Tutte quelle che potevano essere le sfumature del soul degli anni sessanta (da quello più pop della Motown dei Temptations e delle Supremes, a quello più emozionale e pieno di sudore di Aretha Franklin ed Otis Redding, a quello della Chigaco di Jerry Butler e Curtis Mayfield) in Sharon Jones convivono perfettamente ed armoniosamente come se fossero un unica cosa.
Già la copertina ricorda "This Is My Country" degli Impressions (con meno macerie) ma il tema principale qui resta l'amore e le relazioni sentimentali, che lasciano segni e fanno appunto imparare la vita in modo duro.  Ma il cantato di Sharon Jones e la musica suonata dai Dap Kings rendono il tutto accettabile, con la fierezza di chi resta deluso ma va avanti, combatte, e vive nonostante tutto. Inutile cercare i riferimenti e gli accostamenti musicali, perchè si farebbe un esercizio inutile.  Meglio lasciarsi andare senza resistere, seguendo il vecchio detto "Move your ass....and the rest will follow".

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THE APPLES IN STEREO - "Travellers in Space and Time"

03:13
E' una verità assodata che il rock è sempre stato un ibrido di generi. La sua capacità di trovare ispirazione ovunque è  uno dei motivi della sua sopravvivenza ogni volta che qualcuno lo da per morto. In questo ultimo album degli Apples in Stereo, abbiamo però l'assoluta certezza che il rock si è riconciliato defenitivamente con il suo nemico giurato: la disco music. Ovviamente non stiamo parlando della disco stile Village People ma di quell'ibrido già tentato alla fine degli anni '70 da Jeff Lynne e della sua Electric Light Orchestra. con album come "Discovery", all'epoca accoltio molto male dalla critica.  D'altronde, lo stesso Lynne è stato il responsabile negli anni 70 della prosecuzione del pop dei Beatles oggi così tanto in voga e gli Apples in Stereo sono ormai vent'anni che si muovono sullo stesso solco, partendo dall'ormai famigerato lo-fi del collettivo Elephant 6 (che includeva gruppi quali Olivia Tremor Control e Neutral Milk Hotel) . Lo spostamento da Lennon/McCartney/Wilson a Jeff Lynne va quindi inquadrato in quest'ottica di continuità.
"Travellers in Space and Time" è descritto da Robert Schneider (leader del gruppo) come un album di "retro-futuristico pop destinato agli adolescenti del futuro". Il tema del viaggio nel tempo e nello spazio, però, può essere tranquillamente ignorato ed è anzi quasi fuorviante data la natura così gioiosa e vibrante dell'album.  Il disco presenta anche canzoni più rockeggianti come "Dignified Dignitary","C.P.U" o "Next Year at About the Same Time" ma il cuore dell'album è costituito da i pezzi come "Dance Floor", "Nobody but You", "Told You Once" o "It's Allright" che tra sintetizzatori, vocoder, archi, e ritmi ballabili danno a questo viaggio nel tempo e nello spazio un sapore di pattini e ginocchiere, pavimenti luminosi e palle di cristallo. Salite a bordo e ballate!!
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DR. DOG - "Shame, Shame"

06:35
A me succede spesso di ascoltare dischi di band di cui ignoravo completamente l'esistenza. I Dr Dog sono uno di quelli. Quando questo succede provo un senso di infinita gioia, ed ammettere la mia "ignoranza" mi da il senso di quanto sia bello continuare a conoscere. "Shame, Shame" è addirittura il loro sesto album ma, per ammissione degli stessi protagonisti, è come se fosse un nuovo esordio. I Dr. Dog sono una band indie di Philadelphia e la loro musica, come ho letto da qualche parte, è un miscuglio ed un aggiornamento delle tre B degli anni 60: Beatles, Beach Boys e Band. Questo disco però, è sentito dal gruppo come un nuovo esordio in quanto per la prima volta vede la partecipazione di un produttore esterno (Rob Schnapf già al lavoro con Beck ed Elliott Smith) e registrato in uno studio diverso dal loro abituale rifugio di Philadelphia. L'intenzione era quella di privilegiare arrangiamenti essenziali nel tentativo di catturare un senso di urgenza facile poi da ripetere durante i concerti. 
Fatte tutte queste debite premesse, quando si ascolta il disco si ha una sensazione di assoluto piacere in quanto le canzoni, seppur in qualche modo riflessive ed intimiste nei testi, sprizzano una  gioiosa vitalità. Il brano d'apertura "Stranger" ha un ritornello irresistibile e tutto il resto del disco procede con canzoni dalla struttura classica, quasi fuori dal tempo, con piacevoli armonie vocali in cui ci sono incursioni vagamente psichedeliche che ripercorron più di una volta la lezione dei Wilco o dei My Morning Jacket (per citare due influenze più recenti). Un bel disco insomma, nostalgico nelle atmosfere ma orgogliosamente presente, con il quale i Dr Dog sperano di arrivare ad una maggiore notorietà che meritano tutta.
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I MIGLIORI ALBUM DELLA NOSTRA VITA

05:59
BOB DYLAN
"Highway 61 Revisited" (1965)

Un mese prima della pubblicazione di "Highway 61 Revisited" ha luogo uno di quegli episodi considerati ormai come punti di svolta della storia del rock. Bob Dylan si ripresenta al Newport Folk Festival che appena due anni prima lo aveva incoronato suo re. Questa volta non è solo con la sua chitarra acustica e l'armonica a bocca, ma accompagnato dalla Butterfield Blues Band. Attacca una versione elettrica di "Maggie's Farm" ad un volume che in quel festival non si era mai sentito. La gente urla, fischia, protesta. Rivogliono il loro menestrello, il loro eroe. Ma ormai è troppo tardi, il segno è stato lasciato. Il Dylan portavoce della protesta del movimento folk è sparito per sempre. Al suo posto c'è ora il Dylan che libera il rock dalla sua gabbia di genere musicale leggero fatto e suonato da adolescenti trasformandolo, di colpo, nella più rivoluzionaria forma artistica della seconda metà del ventesimo secolo.
In realtà c'era gia stata una facciata di rock nell'album precedente ("Bringing it All Back Home", nel quale si trovava proprio "Maggie's Farm" oltre alla devastante "Subterranean Homesick Blues") ma con "Highway" la rivoluzione è completa. Dylan, scrollandosi di dosso le pressioni che lo volevano incastonato in una figura mitica decisa da altri, libera un intera generazione e lo fa incurante della conteastazione nei suoi confronti da parte del suo pubblico che andrà avanti per tutta la durata del suo tour mondiale. Lui sa di essere nel giusto ed il pubblico, presto, si adeguerà a lui e non il contrario.
L'album si apre con quella che ormai è universalmente riconosciuta come la più bella canzone rock di tutti i tempi: "Like a Rolling Stones". Dylan trova il suono che stava cercando (che lui definisce "il sottile suono al mercurio") grazie anche all'apporto fortuito di Al Kooper che non faceva parte, in quel momento, del gruppo di musicisti che registravano con lui. Un brano uscito come singolo che rompeva un altro tabù essendo lungo ben più di sei minuti. Le immagini del testo, con i suoi tanti personaggi oscuri, le se metafore ardite, fanno di Dylan "il poeta". Come disse Bruce Springsteen quando parlò in occasione dell'introduzione di Dylan alla Rock 'n' Roll Hall of Fame : "Bob ti liberava la mente come Elvis liberava il corpo".
La poesia raggiunge vette se possibile ancora più alte nel brano di chiusura "Desolation Row" con una carrellata di personaggi improbabili che fanno paragonare Dylan addirittura a T. S. Elliot. E poi c'è l'impietoso ritratto di Mr. Jones in "Ballad of a Thin Man", la persona media (o meglio mediocre) che guarda e non capisce cosa succede intorno a lui, che ha paura dei cambiamenti, di perdere le proprie certezze. La grandezza di questo ritratto universale sta nella natura stessa dell'essere umano ed oggi, a distanza di oltre 40 anni, i Mr. Jones sembrano essersi moltiplicati.
Da ultimo va ricordato che di queste sessions fa parte anche "Positively 4th Street" che però non venne inserita nell'album, e questo la dice lunga sulla qualità delle canzoni presenti in "Highway". Questa anzone è l'addio di Dylan ai compagni di viaggio della scena folk del Greenwich Village (la 4th street è la strada dove Dylan ha vissuto). Ma nel bisogno di proseguire sulla sua strada Dylan non è certo tenero o nostalgico.  La canzone è una delle più riuscite melodicamente parlando, però il disprezzo di Dylan è tagliente e rivolgendosi ai suoi vecchi amici declama :" Vorrei che per una volta sola, tu potessi essere nelle mie scarpe e che per un momento solo io potessi essere te: sapresti quale strazio è vederti!"




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MGMT - "Congratulations"

03:24
Probabilmente siamo di fronte ad una delle più brutte copertine della storia del rock però con un certo significato.  L'onda che si trasforma nelle fauci di un animale che cerca di inghiottire Ben Goldwasser e Andrew VanWyngarden degli MGMT è quella del successo che hanno ottenuto con "Oracular Spectacular". Un successo enorme che ha fatto di questo album uno dei più attesi lavori di questo 2010 (anche Paolo Nutini al concerto del primo Maggio a Roma ha fatto una cover di "Time to Pretend" tanto per capirci). "Oracular Spectacular" era uno di quegli album pieno di singoli che fanno si che un album abbia un successo di lunga durata. Ora, gli MGMT avrebbero potuto seguire quello schema e progredire verso una strada facile. Ma chi ha ascoltato bene quell'album e non si è fatto solo incantare dagli affascinante singoli di "Time to pretend" e "Kids" avrebbe facilmente intuito che i nostri non erano dei semplici Daft Punk alternativi e pschideleci. Anche il fatto di essere sotto contratto con una major deve aver spinto gli MGMT a spingersi più in la di qualsiasi altro gruppo che incide per etichette indipendenti.  Ecco allora che "Congratulation" manca di quell'appeal commerciale immediato essendo un viaggio sonoro complesso ma non ostico. Forse non è nemmeno un caso che nella traccia di apertura cantano "How do I know it is working right?" (Come posso sapere se sta funzionando bene?) nella splendida "It's Working". Però , canzone dopo canzone, si ha la sensazione che quel surf ha viaggiato molto più veloce dell'onda che voleva inghiottirli. "Congratulation" è una grande dichiarazione di indipendenza artistica tanto che "Siberian Breaks" si spinge fino a raggiungere l'ormai inusuale lunghezza di ben 12 minuti senza essere stucchevolmente progressive. Il fatto che l'album sembra privo di singoli è soltanto un segno dei tempi, perchè canzoni come "I Found a Whistle" ed anche "Flesh Delirium" (che in effetti è stato scelto come primo singolo) dovrebbero, in un mondo ideale, essere lo standard delle canzoni passati per radio. L'album si chiude con la canzone che da il titolo all'album, e sembra quasi che sia un contraltare al dubbio iniziale. Ma se così non fosse, i complimenti glieli faccio io, perchè sarà veramente difficile che qualcuno possa uscire con un album più bello di questo nel 2010.


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